Dicono i locali che quando arrivi a Coney Island in un
attimo lo sanno tutti. Per quanto sia grande e popolata, Coney Island non ha
misteri. Arrivi qui solo perché ci vivi o per un motivo preciso. Non puoi dire
di essere di passaggio perché da Coney Island non si va da nessun’altra parte.
Coney è la sezione meridionale di Brooklyn, una volta famosa per la ruota
panoramica lungo Boardwalk, la passeggiata che affianca la spiaggia, e per
Nathan’s, un ristorante specializzato in hot dog che poi si è trasformato in
una sorta di catena con punti vendita sparsi un po’ ovunque. Per anni Coney
Island è stata un sobborgo abitato da emigrati europei, molti italiani, poi
anche tanti est europei soprattutto russi e infine, gradualmente, ha cambiato
colore ed è diventato una zona abitata per lo più da afroamericani.
Il flusso migratorio dall’Europa si è fermato negli
anni ’50, più o meno quando hanno ideato i “projects”, grandi complessi edilizi
con case popolari, abitate dalle fasce sociali più povere che qui a Coney hanno
trovato terreno fertile per stabilirsi. Con il tempo Coney è diventata sempre
più nera, sempre più abbandonata a sé stessa, sempre più pericolosa. E siccome
il basket è “The City Game”, lo sport delle metropoli, il basket è diventato la
religione locale.
Coney non è grande in senso assoluto: una quindicina
di isolati in larghezza, tre in lunghezza, adagiati alle spalle di Ocean
Parkway dove nel film “He Got Game”, Denzel Washington spiega al figlio
interpretato da adulto dalla stella NBA Ray Allen (ai tempi giovane emergente
dei Milwaukee Bucks) perché aveva deciso di chiamarlo Jesus. Non è casuale che
il personaggio di Jesus Shuttlesworth sia un prodotto di Coney Island: il
regista del film, Spike Lee, è di quelle parti, e il basket è ciò che in questa
perversione sociale determina lo status di ogni individuo. Se sai giocare vali,
sei rispettato, troverai lavoro, ragazze e amici. Altrimenti, sei uno
qualunque, forse anche peggio. Oppure un delinquente...
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