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mercoledì 30 maggio 2018

A proposito di Houston e D'Antoni: la verità sul massiccio ricorso al tiro da tre


Nella gara più importante della sua vita di allenatore, ad una vittoria dalla finale NBA, Mike D’Antoni è stato tradito macabramente dall’arma attorno alla quale ha costruito la sua filosofia di gioco, ovvero il tiro da tre. Houston in realtà era molto diversa dai Suns dei “Sette secondi o meno”. Non erano una squadra ad altissimo numero di possessi e il tiro da tre non nasceva dalla circolazione della palla ispirata da Steve Nash ma da uno spinto utilizzo dell’uno contro uno che poi generava canestri al ferro (James Harden), tiri liberi o tiri dalla media che non sarebbero previsti dal sistema ma per Chris Paul sono equivalenti ad un lay-up. Ma nella gara più importante della stagione, Houston ha sbagliato 27 tiri da tre consecutivi e perso contro Golden State. Che in una serata orribile al tiro abbia perso di nove è solo un altro aspetto della beffa.
Criticare D’Antoni per aver perso una partita nello stesso modo in cui ne ha vinte 65 in regular season – record di franchigia, neanche ai tempi dei due titoli, di Hakeem e Clyde Drexler, delle Twin Towers, Hakeem e Ralph Sampson, o di Moses Malone ne avevano vinte tante -, vinto due serie di playoff e portato Golden State sotto 3-2 nella finale di conference, criticare D’Antoni – dicevo – è ridicolo. Con i se e i ma non si vincono i titoli. Dire che con Paul, i Rockets avrebbero vinto almeno una delle ultime due partite è come dire che nel 2006 Phoenix avrebbe eliminato San Antonio se Robert Horry, abbattendo Steve Nash, non avesse causato una mezza rissa che ha fatto fuori due giocatori dei Suns (Boris Diaw e Amar'e Stoudemore) nella gara 6 casalinga con cui avrebbe chiuso la serie. Forse.
Ma è un fatto che finché Paul è stato in campo, Houston è stata avanti (e per la verità lo è stata fino a metà gara, senza Paul, sia in gara 6 che in gara 7). E i Rockets non stanno combattendo ad Ovest contro un’avversaria normale, stanno combattendo contro una dinastia come quella dei Warriors. Sono come i Knicks degli anni ’90 contro i Bulls. I Jazz del 97 e 98 contro i Bulls, sono come i Kings dei primi anni 2000 contro i Lakers di Shaq e Kobe. Battere questi Warriors è difficile: hanno quattro superstelle nel pieno dell’energia e della vitalità. Ci sono stati tanti superteam in passato ma Golden State ha tutte le proprie stelle nell’età della piena maturità: non sono troppo giovani, non sono ancora in declino. Per nulla. Infatti è inutile chiedersi se con Paul, i Rockets avrebbero vinto. Non è detto: OKC era avanti 3-1 contro i Warriors nel 2016 ma ha perso in sette e aveva Kevin Durant. 



I 27 errori consecutivi di gara 7 non sono una bocciatura del sistema. Il sistema non è indebolito dall’aleatorietà del tiro, accentuata sicuramente dall’assenza di Chris Paul. E’ un sistema di quantità, che funziona perché oggi i tiratori sono superbi. Può piacere o non piacere. I fade-away da cinque metri di Michael Jordan o di Kobe Bryant erano più belli di uno step-back di James Harden e così uno sky-hook di Kareem. Forse non lo era un movimento di squassante potenza di Shaquille O’Neal negli anni migliori. Ma la realtà è che gli allenatori tendono ad usare ciò che è più efficace. E il ricorso sistematico al tiro da tre matematicamente funziona. Così come Steve Kerr è ricorso all'orrenda arma del fallo volontario su Clint Capela per mandarlo in lunetta e arrestare la potenziale rimonta dei Rockets (durante la finale del 2000 Larry Bird, allora coach di Indiana, diciarò testualmente che l'Hack-a-Shaq lo usava per vincere la partita, se possibile, bello o brutto non era un suo problema e aveva ragione).
Houston non era solo tiro scriteriato, era anche il pick and roll centrale per mandare a canestro Clint Capela, era l’uno contro uno di Harden e Paul per arrivare al ferro, era l’utilizzo del palleggio per scaricare su un tiratore in angolo. Ma non sono i 27 errori a etichettare un sistema come bello o brutto. Se non piace, se la deriva è un gioco stagnante, un tiro a segno come lo etichettava Aldo Giordani parlando della scuola slava quando il tiro era la sua prima caratteristica, l’unica soluzione è eliminare il tiro da tre. Allontaniamolo ancora e nel giro di poco tempo ci saranno tiratori identici a quelli odierni con un range più ampio. Proprio i Rockets avevano un tiratore, che si è autoeliminato per la sua inadattabilità difensiva (Houston quest’anno aveva una difesa molto più che discreta), Ryan Anderson, che è già oggi in grado di tirare un metro e mezzo più distante dell’arco. Se il tiro da fuori è antibasket – un dibattito creato dall’esplosione di Curry – eliminare i vantaggi di tirare da fuori è l’unico sistema credibile per combattere il trend. E non credo lo faranno.

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