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sabato 9 giugno 2018

Golden Times: l'effetto Kevin Durant


Joe Lacob aveva rilasciato una dichiarazione che sembrava già una minaccia. Nei minuti successivi di gara 7 aveva detto che i Golden State Warriors sarebbero stati estremamente aggressivi sul mercato per migliorare ulteriormente la squadra, anche sull’onda della delusione. Quella dichiarazione d’intenti, suffragata dalla successiva firma di Kevin Durant, è stata un segnale. I Golden State Warriors hanno raggiunto uno status che nella loro storia non avevano mai, mai, neppure avvicinato. Sono una franchigia modello, cui nessuno dice no a priori.

Tutta la carriera di Kevin Durant era stata spesa con una sola franchigia anche se nel suo anno da rookie i Thunder si chiamavano ancora Supersonics e giocavano a Seattle. Alla scadenza del primo contratto, Durant aveva esteso senza neppure ascoltare altri team. Ma tutti sapevano che nel 2016 avrebbe ascoltato, avrebbe organizzato un circo simile a quello piantato da LeBron James nel 2010 senza curarsi dei danni d’immagine collaterali.
Per mesi, la sua permanenza ai Thunder era stata considerata scontata, probabilmente con un contratto annuale e opzione sul secondo anno che gli avrebbe permesso di massimizzare il suo valore economico. Ma dopo la fine della stagione erano successe tante cose. In molti si sono divertiti a speculare su cosa sarebbe successo se Oklahoma City avesse vinto il titolo: la risposta unanime è che Durant non avrebbe mai lasciato i Thunder se questi avessero vinto. E gli stessi sono pronti a giurare che non sarebbe mai andato ai Warriors se Golden State avesse vinto perché sarebbe stato improprio andare in una squadra reduce da due titoli e dal record di vittorie in una stagione. Ma non lo sapremo mai. Quando Durant ha comunicato la propria decisione, in un post su “The Players’ Tribune”, il sito di alta qualità aperto da un gruppo di atleti di altissimo calibro e messo a disposizione di tutti gli altri atleti, nel quale lui stesso ha interessi personali, ha menzionato tante cose ma non è stato affatto chiaro. Ha parlato, anche nella conferenza stampa successiva a Oakland, della voglia di uscire dalla sua zona di conforto a Oklahoma City per mettersi alla prova e divertirsi. Dicono che i Warriors l’abbiano convinto enfatizzando il loro ambiente serio, professionale ma al tempo stesso “leggero”.
Cinque squadre, inclusi i Thunder, hanno ricevuto udienza da Durant in una villa affittata per l’occasione negli Hamptons, vicino Manhattan, sull’Oceano, un posto amato dai newyorkesi ricchi. La decisione l’ha presa la mattina del 4 luglio, Independence Day, con una telefonata a Bob Myers. Nella ricostruzione postuma di quanto accaduto, si pensa che i Warriors siano stati efficaci non tanto nel meeting (al quale si sono presentati anche quattro giocatori, Stephen Curry, Klay Thompson, Draymond Green e Andre Iguodala che aveva legato con Durant nel corso delle Olimpiadi di Londra nel 2012) quanto nei giorni successivi quando hanno continuato a chiamarlo mostrando un interesse genuino.
Si dice anche che due chiamate siano state fondamentali, quella di Steve Nash che conosce Durant da anni e quella di Jerry West, sempre lui, il vecchio guru, Mister Logo. West ha perso otto finali da giocatore e ha raccontato a Durant quanto quelle sconfitte gli abbiano tormentato l’esistenza. Succede anche adesso. Il messaggio era implicito: non preoccuparti di quel che diranno, pensa solo a vincere perché alla fine è quello che conta. Durant temeva diverse cose, temeva di essere considerato un traditore, temeva di essere etichettato come un opportunista che abbandonava la propria squadra per unirsi all’unica che l’aveva battuta, temeva di non essere gradito alle stelle dei Warriors. Se Curry e Thompson hanno cancellato quest’ultimo sospetto, West ha acceso una lampadina. Le stelle come Durant dovrebbero combattere il nemico, non unirsi ad esso, ma in un sistema in cui i giocatori vengono apprezzati quando giocano per vincere, non per sé stessi, le statistiche, i soldi, Durant ha deciso di andare laddove le possibilità di vittoria sarebbero state più alte. Non voleva sentirsi frustrato come successe a West. Era pronto a vivere con le conseguenze di una delle scelte più clamorose, sorprendenti, sconvolgenti che si siano mai viste. 
Per avere lui, i Warriors hanno dovuto smantellare una fetta di squadra rinunciando a quattro giocatori che facevano parte della loro cultura. Andrew Bogut, passato a Dallas (poi a Cleveland di tutte le squadre ma infortunandosi subito), Leandro Barbosa, lasciato andare a Phoenix, Festus Ezeli, finito a Portland, e infine Harrison Barnes. La decisione di Barnes di rifiutare l’offerta dei Warriors nove mesi prima si è rivelata un incredibile colpo di fortuna per Golden State. Se Barnes avesse firmato, non avrebbero avuto lo spazio salariale per firmare Durant. Certo, avrebbero potuto cederlo in cambio di nulla come Bogut ma sarebbe stato più complicato. Con Barnes free-agent, hanno solo dovuto ringraziarlo. E lui come ricompensa ha firmato con Dallas al massimo salariale. Stessa cifra di quella percepita da Kevin Durant.


 
 




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