venerdì 9 settembre 2016

Il fascino perverso e irresistibile del dolce diavolo Allen Iverson


Devono essere trascorsi almeno cinque anni dalla sua ultima partita perché un giocatore venga eletto nella Hall of Fame che in America non è un referendum di popolarità o un gioco da bar. È una cosa seria. Per questo fa davvero impressione che Allen Iverson sia ora un membro dell'Arca degli immortali. Ora che sembra ma non è più un ragazzino anche se continua a sfuggire alle giacche, ovviamente alle cravatte. Anche se sotto la giacca adesso arancione e veramente brutta consegnata ai nuovi eroi di Springfield aveva l'immancabile t - shirt e la solita collana d'oro.
Allen Iverson è stato un giocatore iconico, il più apprezzato da Philadelphia, un posto spietato che non ha mai risparmiato nessuno. Non ha mai "imbrogliato", ha sempre dato tutto. Non era un grande lavoratore, non si allenava d'estate, non frequentava la sala pesi, andava in campo a 1.83 di statura e 75 chili di peso forma. Ma in partita era un gladiatore.

Dominava, al top della carriera, per il talento, l'istinto, il senso della sfida, il coraggio. Iverson aveva mille difetti, era inallenabile e testardo, conduceva una vita spericolata che alla fine ha accorciato la sua carriera molto più di quanto dicano le statistiche. Iverson ha finito di giocare nel 2010 a 34 anni a parte una breve apparizione dimenticata al Besiktas. Ma la sua carriera è finita quando i Sixers l'hanno ceduto a Denver per quanto anche in Colorado qualcosa abbia fatto. Il resto è stato nulla, solo un appendice. Aveva mille difetti ed era meraviglioso lo stesso.
Per capire Iverson bisogna ricordare che è stato il più piccolo numero 1 del draft nel 1996, quando entrarono nella NBA anche Ray Allen, Kobe Bryant e Steve Nash (e Stephon Marbury e Marcus Camby e Shareef Abdur-Rahim). Nel 2001 fu nominato MVP della Lega interrompendo il dominio di Shaq e Tim Duncan. Ha vinto quattro volte la classifica marcatori. Ha segnato 26.7 punti di media per la carriera. Ha giocato solo una Finale NBA nel 2001 e non ha mai vinto un titolo. Ha rifiutato di accettare un ruolo minore mentalmente e non si è adattato tecnicamente. Ma nessuno ricorderà troppo l'ultimo Iverson o le mancate vittorie. La grandezza di Iverson è un'altra. Il suo stile di gioco e il coraggio fisico e mentale. I crossover con cui da rookie mise in terra Michael Jordan. Due volte. La sua perversa genuinità. La passeggiata reale sopra Tyronn Lue in gara 1 della Finale del 2001 a Los Angeles. Una serie scontata da 4-0 cominciò con i suoi 48 punti, sette consecutivi nel supplementare e una vittoria clamorosa anche se unica. Iverson piaceva perché era vero e lo è stato, coerente fino in fondo, anche fuori del campo e anche dopo aver smesso.
La sua famosa sparata contro Larry Brown, il coach che ha amato e odiato di più, che lo accusava di non allenarsi seriamente. "Stiamo davvero parlando di allenamenti?" e giù con una requisitoria in slang. Il titolo di MVP all'All-Star Game del 2001 a Washington quando era stato avvistato ovunque in un weekend, incui non perse un party e non rifiutò un drink.
Iverson era scomodo. Si portava dietro un codazzo di amici che l'hanno sfruttato e rovinato. Venne coniato allora il termine "posse". Un entourage di amici che in realtà erano sanguisughe. Ma Iverson è sempre stato leale nei confronti della sua gente, di quelli che c'erano prima che diventasse ricco, che restarono con lui quando era in prigione a 17 anni per rissa aggravata e fu scarcerato dal Governatore della Virginia. Gli concesse la grazia riducendo la tensioni razzialo che stavano montando nell'area.
Quando ha smesso ha perso tutto. È stato visto senza un dollaro in un centro commerciale di Atlanta, cacciato via da una guardia di sicurezza. Ma si è ripreso. I Sixers e la NBA l'hanno riportato dentro la famiglia. Il peggio è alle spalle. È tornato con la moglie Tawanna che conobbe quando erano bambini, con i figli che non ha mai trascurato perché il cuore lo aveva anche nella vita di tutti i giorni. Il peggio è alle spalle. Dovrebbe essere così però con Iverson non si sa mai.
Era scomodo perché tatuato all'eccesso, perché rifiutava le convenzioni. Perché si vestiva con baggy-jeans e bandane e indossava collane giganti. La NBA inventò il dress code per le partite per arginare il suo stile di abbigliamento. Non piaceva all'America benpensante ma piaceva tantissimo ai ragazzi. Provò a rappare ma lo fermarono perché le sue strofe erano omofobe, violente, terrorizzanti. Aveva quello che chiamavano "street cred", la credibilità di chi viene dalla strada.
Matt Geiger, che giocò con lui a Philadelphia, acquistò una casa in cui aveva vissuto. Apri una cabina armadio e fu travolto da scatole di Timberland nuove e mai aperte. Da alcune spuntarono fuori rotoli di banconote. Un'altra storia narra di un amico cui aveva regalato una Bentley. La lasciò all'aeroporto ma dimenticò dove l'avesse parcheggiata. Dopo 15 minuti invece che continuare a cercarla andò dal rivenditore e ne acquistò una nuova. Con i soldi di Iverson. Questo erano i suoi amici e questa era l'attenzione che aveva per i suoi soldi. Ma se fosse stato diverso o se fosse cambiato non sarebbe stato Iverson.
Nel 2004 il suo nome venne legato alla debacle americana delle Olimpiadi di Atene. Ma una cosa non è mai stata abbastanza sottollineata: quella squadra era destinata al fallimento. Nel 2003 si era qualificata senza sconfitte. Ma i membri prescelti scapparono via in massa un anno dopo. Temevano attentati terroristici nelle prime Olimpiadi successive all'11 settembre. Ci furono infortuni veri e infortuni falsi. Kobe Bryant dovette rinunciare a causa delle sue vicende giudiziarie dell'epoca. Rimasero in tre. Stephon Marbury, Tim Duncan e Allen Iverson. Il coach Larry Brown provò a convincere, ma non ci riuscì, i giocatori con i quali aveva appena vinto il titolo a Detroit. Rip Hamilton e Chauncey Billups dissero no. Completarono la squadra con talenti enormi ma giovanissimi, con quattro ventenni o poco più. LeBron, Melo, Stoudemire e Wade.
Ma anche nel fallimento c'è Iverson. Anti convenzionale fino in fondo. Bravo e dannato. Criticabile e controverso ma affascinante e irresistibile.

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