sabato 9 giugno 2018

Golden Times: l'effetto Kevin Durant


Joe Lacob aveva rilasciato una dichiarazione che sembrava già una minaccia. Nei minuti successivi di gara 7 aveva detto che i Golden State Warriors sarebbero stati estremamente aggressivi sul mercato per migliorare ulteriormente la squadra, anche sull’onda della delusione. Quella dichiarazione d’intenti, suffragata dalla successiva firma di Kevin Durant, è stata un segnale. I Golden State Warriors hanno raggiunto uno status che nella loro storia non avevano mai, mai, neppure avvicinato. Sono una franchigia modello, cui nessuno dice no a priori.

martedì 5 giugno 2018

NBA Finals 1990-1999: quando Steve Kerr diventò l'eroe dell'ultimo tiro

Nella NBA era sempre stato considerato una mezza figura. Phoenix lo scelse perché era un idolo locale; a Cleveland ebbe poco spazio e quando fu ceduto a Orlando gli dissero che in Florida avrebbe finalmente potuto ampliare il proprio gioco. Provvisto di grande “sense of humor”, intelligente, umile, modesto, commentò che non aveva capito si riferissero al golf, piuttosto che al basket. Ma nel triangolo dei Bulls, Steve Kerr aveva trovato lo scenario giusto per emergere. Nella Finale del 1996 era stato dignitoso, in quella del 1997 era rimasto al di sotto del suo standard. In gara 4 aveva sbagliato il tiro più importante, uno di quelli che avevano permesso a Stockton di scatenarsi. Dopo quell’errore era entrato in una fase di totale sconforto che aveva preoccupato la moglie Margot al punto da spingerla a far visita a Michael Jordan prima del rientro a Chicago per chiedergli di aiutare il marito se se ne fosse presentata l’occasione.

venerdì 1 giugno 2018

La chiamata Durant/LeBron invertita con la scusa dell'instant-replay


La chiamata invertita, prima sfondamento di Kevin Durant poi fallo di LeBron James, non ha vinto la partita per i Golden State Warriors ma di sicuro ha impedito che la perdessero. La chiave è in una regola poco nota istituita nel 2012/13: consente agli arbitri, una volta optato per l'uso del replay, al fine di valutare la posizione del difensore (dentro o fuori il semicerchio?), di verificare successivamente se la chiamata fosse o meno corretta. Nei fatti si tratta di usare la tecnologia per correggere un ipotetico errore tecnico. Più che instant-replay può chiamarsi arbitraggio elettronico.

mercoledì 30 maggio 2018

Come può Houston tenere Paul, Capela e migliorare lo stesso?


Più che disquisire sui tanti, troppi, tiri da tre che Houston ha preso e sbagliato in gara 7, bisognerebbe capire quanto i Rockets abbiano pagato le ridotte dimensioni della loro rotazione e coinvolgere la cronica tendenza di Mike D’Antoni di utilizzare pochi giocatori spremendo i migliori o i più fidati. Nelle partite importanti, D’Antoni ha usato una rotazione di sette giocatori. Se questo abbia causato il calo vistoso della squadra nel secondo tempo di gara 6 e 7, se questo sia uno dei motivi dell’infortunio di Chris Paul – che di infortuni al momento sbagliato purtroppo ne ha avuto tanti in carriera – non è dimostrabile né in un senso né in un altro. Ma di sicuro questa stagione ha rinforzato alcuni concetti, tipo la necessità di proteggere Paul durante la regular season (fatto già quest’anno ma forse bisognerà farlo ancora di più) e trovare il sistema di aumentare il numero di giocatori fidati su un mercato che per i Rockets comincia in salita.

A proposito di Houston e D'Antoni: la verità sul massiccio ricorso al tiro da tre


Nella gara più importante della sua vita di allenatore, ad una vittoria dalla finale NBA, Mike D’Antoni è stato tradito macabramente dall’arma attorno alla quale ha costruito la sua filosofia di gioco, ovvero il tiro da tre. Houston in realtà era molto diversa dai Suns dei “Sette secondi o meno”. Non erano una squadra ad altissimo numero di possessi e il tiro da tre non nasceva dalla circolazione della palla ispirata da Steve Nash ma da uno spinto utilizzo dell’uno contro uno che poi generava canestri al ferro (James Harden), tiri liberi o tiri dalla media che non sarebbero previsti dal sistema ma per Chris Paul sono equivalenti ad un lay-up. Ma nella gara più importante della stagione, Houston ha sbagliato 27 tiri da tre consecutivi e perso contro Golden State. Che in una serata orribile al tiro abbia perso di nove è solo un altro aspetto della beffa.

lunedì 28 maggio 2018

Il superotto di LeBron James


La nona finale della carriera di LeBron James (eguagliato Magic Johnson che ne vinse cinque) è anche l’ottava consecutiva. Ma mai era arrivata partendo dal numero 4 del tabellone e con una squadra oggettivamente così debole, dopo una stagione che ne ha racchiuse almeno tre in pochi mesi. Solo nel 2007 quando non aveva ancora 23 anni l’approdo in finale poteva essere considerato stupefacente come lo è adesso. I Cavaliers hanno cominciato questa stagione perdendo Kyrie Irving, la seconda star della squadra, legittimamente uno dei primi 10-12 giocatori di questa Lega; l’esperimento Isaiah Thomas è fallito; affiancare a LeBron, in una specie di operazione nostalgia+amicizia, Dwyane Wade è stato un altro fallimento. La rivoluzione di febbraio ha fatto precipitare la squadra in classifica, afflitta da una difesa terribile e un’attitudine spesso peggiore. La perla della rivoluzione, Rodney Hood, è fuori dalla rotazione. Per arrivare in finale, Cleveland ha dovuto vincere due volte una gara 7. Probabilmente Indiana meritava di avanzare più dei Cavaliers nel primo turno; l’ostacolo più arduo, Toronto, si è rivelato un clamoroso bluff; Boston ha avuto una stagione stupefacente ma l’accesso dei Celtics in finale era il solo evento che avrebbe avuto addirittura meno senso, date le circostanze. Boston, se avesse vinto gara 7, sarebbe entrata in finale con un record di 1-7 in trasferta nei playoff, due vittorie in gara 7 come Cleveland ma tutte e due ottenute proteggendo il fattore campo. I Celtics meritavano la finale, per come e dove sono arrivati senza i loro due migliori giocatori (e Dan Theis), ma appunto avrebbe avuto meno senso di vedere qui LeBron, a tratti da solo.

NBA Finals 1990-1999: l'arrivo a Chicago di Dennis Rodman

Aveva solo tre anni, Rodman, quando il padre Philander scappò di casa. Anni dopo si rifece vivo informandolo che viveva nelle Filippine, faceva il manager di un ristorante, si era risposato e aveva qualcosa come ventinove figli, o giù di lì. Un giorno arrivò a Chicago e una radio privata cercò di favorire l’incrocio tra Dennis e Philander ma senza successo. Rodman è cresciuto nei ghetti di Dallas in una famiglia divenuta… femminile con le due sorelle maggiori, Kim e Debra, e la madre Shirley, che per mantenere i figli svolgeva due lavori e trascorreva il tempo libero (ammesso che ne avesse) suonando il piano in chiesa. Kim e Debra diventarono due splendide giocatrici, quest’ultima vinse il titolo NCAA con Louisiana Tech, la prima diventò All-America alla Stephen F.Austin University. Quanto a Dennis, lo sport gli piaceva ma quando cercò di conquistare un posto nella squadra di football della South Oak Cliff High School venne tagliato perché di corporatura troppo esile. A basket veniva regolarmente sbeffeggiato dalle sorelle, più alte, grosse e dotate di lui.

lunedì 21 maggio 2018

NBA Finals 1990-1999: il sogno di Clyde Drexler


Clyde Drexler non era più felice di stare a Portland. Era stato quasi ceduto a Miami ma la prospettiva di dover sottoporre la famiglia ad un lungo trasferimento per giocare in una squadra mediocre non lo attraeva. Così decise di venire allo scoperto e chiedere di essere scambiato ma solo ad una squadra di vertice, di suo gradimento. In fondo, i Trail Blazers glielo dovevano.

venerdì 18 maggio 2018

NBA Finals 1990-1999: la leggenda di John Starks


John Starks veniva dall’Oklahoma, cambiò quattro college, fece il magazziniere in un supermercato finché non si convinse che aveva talento e non doveva sprecarlo tra scatoloni, scaffali e lattine. Riuscì ad andare a Oklahoma State, vi giocò l’ultimo anno di college, poi ebbe una chance NBA a Golden State ma lo tagliarono. Si rifugiò nella CBA e infine arrivò la chiamata di New York, l’1 ottobre 1990. Il giorno in cui il roster doveva essere ridotto a 12 uomini, capì che il suo destino era segnato. Così decise di andar fuori ma a modo suo. Combattendo. In un’entrata trovò il corpaccione di Ewing a sbarrargli la strada. Pensò di schiacciargli in testa. In realtà cadde rovinosamente, si infortunò e i Knicks non poterono tagliarlo per regolamento. Lo ricollocarono in lista infortunati. Guadagnò tempo.

mercoledì 16 maggio 2018

Philadelphia, da Simmons ad Embiid ai tiratori ora serve il passo più difficile


I playoffs smascherano fino alle estreme conseguenze la reale consistenza di una squadra. Ora è probabile che sottoposti alla cura tattica di Brad Stevens e dei Boston Celtics, i Sixers abbiano denunciato limiti più evidenti di quelli reali. Ma è vero che contro una squadra priva di due starter e un solido cambio come Dan Theis, priva in gara 1 di Jaylen Brown, Philadelphia avrebbe potuto fare decisamente meglio di una onorevole ma inequivocabile resa in cinque gare. Soprattutto pensando ai Sixers come alla prima alternativa a est dei Celtics del prossimo quinquennio. Il che è già ovviamente un clamoroso successo pensando alle premesse e al recente passato.

venerdì 11 maggio 2018

Brad Stevens: quando la nuova star dei playoffs è un allenatore

Non si era mai vista nella NBA un'edizione dei playoffs in cui la stella emergente non è stato un giocatore con buona pace di Donovan Mitchell, Jayson Tatum, Scary Terry Rozier, Embiid and Simmons, Oladipo, Clint Capela, ma un allenatore. Nemmeno gli eroismi di LeBron hanno cancellato l'odierna fissa mondiale per il coach dei Boston Celtics.

mercoledì 9 maggio 2018

New York ha fatto bene a prendere David Fizdale?

Sul mercato allenatori nella NBA sta accadendo qualcosa di interessante. È scomparsa la figura dell'allenatore-star, affermato, quello che può scegliere quale squadra allenare. Chi lo ha o pensa di averlo lo tiene per molti anni come Gregg Popovich o Rick Carlisle. Chi l'ha trovato lo blinda come Golden State con Steve Kerr o Boston con Brad Stevens (ma l'elenco potrebbe allungarsi con Quin Snyder a Utah, Brett Brown a Philadelphia). Le squadre che cambiano coach sono per lo più quelle di bassa classifica e la nuova tendenza è quella di svolgere colloqui con 10-12 allenatori diversi, il classico casting che non significa non avere idee chiare ma svolgere con grande attenzione la propria ricerca. Persino Houston, che due anni fa ha scelto un coach affermato ed esperto come Mike D'Antoni, ha prima "intervistato" una decina di altri allenatori. Ma oggi normalmente  sembra più facile avere una chance per un assistente che per un ex capo.

lunedì 30 aprile 2018

Antetokounmpo: il dubbio è che non sia una prima punta


Giannis Antetokounmpo andrà a scadenza di contratto nel 2021. Significa che fortunatamente i Milwaukee Bucks hanno ancora tre anni per convincerlo a spendere la parte più importante della sua carriera nel Wisconsin. Kareem Abdul-Jabbar un giorno disse che lo stile di vita di Milwaukee – Harley-Davidson a parte – non si adattava al suo. Abdul-Jabbar è stato il più grande giocatore nella storia della franchigia e il motivo dell’unico titolo che abbiano mai vinto. Ceduto lui ai Lakers, non sono più tornati in finale anche se hanno avuto buoni momenti e grandi giocatori. Marques Johnson e Sidney Moncrief erano le stelle negli anni ’80 quando i Bucks erano la terza forza all’est dopo Boston e Philadelphia; poi c’è stata la squadra di Ray Allen e Glenn Robinson che arrivò ad una partita dalla fine del 2001. Ma individualmente Giannis è il più grande giocatore che abbia mai giocato nei Bucks dopo Abdul-Jabbar e ricordando che Oscar Robertson trascorse a Milwaukee la parte terminale della propria carriera. Ma Antetokounmpo – uomo franchigia – rischia di diventare per i Bucks quello che Anthony Davis è per i Pelicans. Una star troppo grande per tenerla confinata in eterno in un mercato così piccolo se il cast di supporto, come lo chiamava Michael Jordan, non sarà da titolo.

sabato 28 aprile 2018

Ma questo di Rudy Gobert non era un fallo sul tiro da tre?



E’ molto italiano parlare del “non fallo” di Rudy Gobert su Paul George. Se anche fosse stato chiamato un imbarazzante George avrebbe dovuto andare sulla linea e fare 3/3 per portare la sfida al supplementare (in realtà Utah avrebbe avuto un’altra opportunità). In queste ultime gare di playoffs ci sono state tantissime chiamate controverse, il goal-tending di LeBron James su Victor Oladipo, i 24 secondi non chiamati ad Al Horford che hanno aiutato i Celtics a vincere gara 5 su Milwaukee ad esempio. La NBA spiega tutto e ha spiegato anche la non chiamata di Ron Garretson, arbitro espertissimo e figlio di Darrell Garretson, forse il più grande arbitro di tutti i tempi, ma il problema resta e forse potrebbe generare altre riflessioni sulla natura stessa del basket.

Il fallimento di OKC, Westbrook come Iverson e uno scambio di troppo


Tornassero indietro a OKC rifarebbero esattamente le stesse mosse che hanno caratterizzato la scorsa estate. La “trade” per Paul George e infine anche quella per Carmelo Anthony avevano un fine: restituire ai Thunder un ruolo da potenziale contendente per il titolo per poter offrire a Russell Westbrook motivi non solo economici per firmare un contratto mostruoso a lunga scadenza (35 milioni l’anno prossimo, 43.8 nel 2021/22, ultima stagione garantita e senza opzioni). E con quello convincere George a restare oltre la scadenza contrattuale del prossimo 30 giugno. Con queste due firme – una c’è già stata, dell’altra si parlerà per intere settimane – si regalerebbero altri cinque anni almeno ad alto livello anche se non necessariamente da titolo.

Superbasket, Michael Jordan, Planinic e altro: l'intervista di Giancarlo Migliola

Il mio amico e collega, ma soprattutto ex compagno di squadra a Superbasket, Giancarlo Migliola su infobetting.com ha dedicato uno dei suoi articoli, tutti scritti magistralmente e con quella sottile ironia e sarcasmo che non avrò mai, a... me. Ecco che cosa ci siamo detti.

sabato 21 aprile 2018

New York Basketball Stories 2.0: le origini di Kyrie


Drederick Irving un giorno disse ai due figli, Asia e Kyrie, che avrebbero dovuto ricevere dalla vita più di quanto aveva avuto lui. Non era una grande dichiarazione. Drederick Irving veniva da un ghetto del Bronx, viveva nei Mitchel Projects, la madre gestiva due lavori per mantenere da sola sei figli perché il padre se ne andò senza avvertire nessuno quando Drederick aveva sei anni. Peggio di così, sarebbe stato difficile. Drederick e i suoi vivevano con il welfare, non avevano nulla. Tranne il basket.

mercoledì 18 aprile 2018

A proposito del nuovo allenatore dei Knicks


Durante la stagione 1994/95, la sua quarta a New York, Pat Riley chiese alla proprietà potere esecutivo su tutta la parte cestistica dell’organizzazione. Ma i Knicks erano nel mezzo di un cambio di proprietà e sono sempre stati una questione di equilibrismi, politica, potere. Riley non ebbe risposta e cominciò segretamente a trattare con Miami. A fine stagione, si dimise con un anno di contratto restante e si trasferì a South Beach. Gli Heat dovettero ricompensare New York per schivare sanzioni. Riley ebbe da Micky Arison quello che voleva. Sarebbero seguiti oltre 20 anni di gestione che hanno prodotto tra le altre cose: tre titoli NBA, cinque finali, una galleria di fenomeni che comprende LeBron James, Dwyane Wade, Alonzo Mourning, Chris Bosh, Tim Hardaway e Shaquille O’Neal. Questi quasi 25 anni – ovviamente sarebbero cambiate molte dinamiche – avrebbero potuto essere i 25 anni dei Knicks che tra l’altro nel 1995 erano molto più avanti di quanto lo fosse Miami nello sviluppo della squadra. Anzi erano competitivi per vincere subito e infatti lo sarebbero stati – senza Pat Riley – per altri cinque o sei anni (giocarono la Finale nel 1999, persero la finale di conference nel 2000).

lunedì 16 aprile 2018

NBA Finals 1990-1999: la battaglia dei tre overtime a Chicago


Lo Chicago Stadium aveva quasi 70 anni quando ospitò la terza Finale NBA della sua gloriosa storia. Nacque come arena dedicata all’hockey su ghiaccio e mostrava, nel 1993, tutti gli anni che aveva. Al di là della strada, era già in piedi il cantiere per la costruzione dello United Center che avrebbe debuttato nella stagione 1994/95. Lo Stadium non aveva le suite, gli spogliatoi somigliavano a scantinati, la stampa prima della partita cenava in un luogo tetro. Poi i tavoli venivano rimossi, sostituiti da una lunga fila di sedie asportabili e la stanza si trasformava nel luogo deputato alle interviste post partita. Per accedere al campo di gioco bisognava attraversare un tunnel strettissimo, salire lungo scale pericolanti e infine accedere al tempio. Lo Stadium era decadente. Quindi era bellissimo.

venerdì 13 aprile 2018

Allenatore dell'anno: otto candidati e un solo Brad Stevens


Non c’è mai stata probabilmente nella storia della NBA una stagione con tanti allenatori meritevoli del trofeo di Coach dell’anno. E’ legittimo considerare candidati in nessun particolare ordine: Brad Stevens (Boston), Dwane Casey (Toronto), Brett Brown (Philadelphia), Nate McMillan (Indiana), Mike D’Antoni (Houston), Gregg Popovich (San Antonio), Terry Stotts (Portland) e Quin Snyder (Utah). C’è un modo interessante, nell’era dei dati analitici ormai di uso comune in America, per decifrare il rendimento di una squadra: paragonare il numero di vittorie effettivo al numero di vittorie preventivate a inizio stagione dai siti specializzati. Ad esempio di questi otto allenatori, solo Popovich ha vinto meno partite (47 contro 53) del preventivato; Stevens a Boston è andato pari. Gli altri ne hanno vinte in media una decina in più.

martedì 10 aprile 2018

MVP Review: la vittoria di Harden e il check-up di tutte le candidature (All in One)

La corsa al titolo di MVP non è stata appassionante come un anno fa quando il mondo si era diviso tra Russell Westbrook, James Harden e nel finale prese quota la candidatura di Kawhi Leonard. Quest’anno Harden vincerà con largo margine sul secondo classificato ed esiste una piccola possibilità che come Steph Curry due anni fa vinca il titolo all’unanimità. Può starci: Harden è il miglior giocatore della miglior squadra della stagione, quella che ha stabilito il nuovo record franchigia di vittorie, ed è il miglior realizzatore della Lega, oltre i 30 di media. Quest’anno Harden figurerà per il quarto anno consecutivo nel primo quintetto All-NBA e in passato è arrivato due volte secondo nella corsa all’MVP.

lunedì 9 aprile 2018

MVP Review: l'interminabile LeBron e i quintetti All-NBA

LeBron James aveva cominciato questa stagione con l'atteggiamento di un uomo in missione. Sembrava volesse appropriarsi per acclamazione del titolo di MVP, un modo inequivocabile per mettere a tacere ogni argomento di discussione su chi sia il miglior giocatore del mondo o su un suo presunto declino. Le difficoltà di Cleveland, con la conseguente rivoluzione del roster, hanno determinato una sorta di passaggio a vuoto, anche mentale, attorno a metà stagione in cui James Harden nella percezione pubblica ha allungato decisamente, lasciandoselo alle spalle. Così probabilmente LeBron non sarà l'MVP della stagione. Non si aggiudica il trofeo dal 2014. Guardando all'età verrebbe da dire che è normale: superati i 33 anni, sarebbe legittimo si risparmiasse durante la regular season per dare il meglio nei playoffs. Non dimentichiamo che LeBron gioca la Finale ininterrottamente dal 2011 (sono sette di fila praticamente due anni di carriera supplementari).

mercoledì 4 aprile 2018

MVP Review: Anthony Davis è il prototipo del centro moderno


Considerato che i New Orleans Pelicans avrebbero dovuto sparire dalla corsa ai playoffs nel momento stesso in cui hanno perso per infortunio DeMarcus Cousins – i cui numeri restano sensazionali -, la stagione di Anthony Davis – The Brow – è stata naturalmente stupefacente. Non è una sorpresa: Davis è il capostipite della generazione dei centri che possono difendere sul perimetro oltre che al ferro, attaccare dal palleggio oltre che dentro l’area ed essere decentemente pericolosi da fuori. Vengono in mente Karl-Anthony Towns e Joel Embiid. Tutti questi giocatori sono sempre considerati ibridi nel senso che la tendenza è quella di accoppiarli a centri veri, teoricamente deputati a svolgere un po’ di lavoro sporco e fisico, ma il rendimento generalmente è migliore quando possono fare a meno di tale compagnia.

martedì 3 aprile 2018

MVP Review: Westbrook resta superbo ma OKC ha vinto troppo poco


Da un punto di vista strettamente individuale, nonostante i ben noti difetti (tiro da tre sotto il 30 %, qualche volta resiste alla tentazione di usarlo, spesso no, specie nei finali di gara, ma lui è così, agonista anche nello sfidare i propri limiti) o la tendenza a esagerare, Russell Westbrook potrebbe essere confermato MVP della stagione. Perché no? Chiuderà molto vicino alla seconda tripla doppia media in carriera. Qualche rimbalzo qua e qualche rimbalzo là e ce l’avrebbe fatta ancora. Ha vinto la classifica degli assist così autorizzandosi a cedere a James Harden lo scettro di miglior realizzatore della Lega. I Thunder accanto a lui sono cambiati tanto e hanno inciso anche sulla sua stagione: ha tirato meno (soprattutto da tre), ha tirato meglio (45 %), ha segnato meno perché è andato meno in lunetta, ha “usato” il 34.3% dei possessi di Oklahoma City contro il 41.7% di un anno fa, cifra record. Ha assistito quasi il 50 % dei canestri segnati dai compagni con lui in campo. Perché quindi Westbrook non dovrebbe essere l’MVP?

venerdì 30 marzo 2018

MVP Review: perchè Durant e Steph si ostacolano


Nel momento stesso in cui due estati fa Kevin Durant scelse di portare il suo talento sulla Baia, istantaneamente le sue possibilità di vincere un secondo MVP dopo quello conquistato con Oklahoma City nel 2014 si sono ridotte. E per osmosi si sono ridotte anche quelle di Stephen Curry. Succede sempre quando un superteam non ha un chiaro leader. A Miami era LeBron James pur arrivando lui, da esterno, nella squadra di Dwyane Wade; ai Lakers di inizio secolo il leader era Shaquille O’Neal e Kobe Bryant è diventato un candidato MVP solo quando Shaq è stato ceduto a Miami; a Houston, Chris Paul è andato a fortificare i Rockets che restano la squadra di James Harden. Durant era il numero 1 a OKC. Probabilmente, Russell Westbrook non sarebbe mai stato l’MVP della Lega se KD non fosse andato mai andato via. Forse.

mercoledì 28 marzo 2018

MVP Review: il nuovo status di DeMar DeRozan


Può sembrare un’esagerazione includere DeMar DeRozan in una qualsiasi conversazione sull’MVP di questa stagione soprattutto considerando le cifre nude e crude. DeRozan, che è una guardia di alto livello da almeno cinque anni, sta segnando circa quattro punti a partita in meno dei 27.3 di una stagione addietro (record carriera) ed è passato da 5.2 a 3.9 rimbalzi per gara. Va anche meno spesso in lunetta (da 8.7 viaggi a 7.2) e sarebbe limitativo attribuire questa minor produttività al minutaggio. Dwane Casey lo impiega 34 minuti di media, contro gli oltre 35 di un anno fa, un decremento nel complesso trascurabile.

lunedì 26 marzo 2018

MVP Review: giocare a Portland penalizza Damian Lillard?


Damian Lillard ha 27 anni e per la quinta stagione consecutiva sarà oltre i 20 punti di media oppure oltre i 25 per la terza. Eppure resta un giocatore difficile da interpretare. In parte è una questione logistica: Lillard ha giocato a Weber State dove l’esposizione è limitata, poi è stato scelto nella seconda parte del primo giro del draft quindi con modeste aspettative e infine è finito a Portland. Non è un mistero che giocare a tre ore di fuso orario dalla costa est è penalizzante, soprattutto se non lo fai a Los Angeles ma in un mercato limitato come quello di Portland. Avesse giocato a New York è probabile – sicuro? – che la popolarità di Lillard sarebbe stata diversa.

MVP Review: la candidatura tramontata di Giannis Antetokounmpo


Giannis Antetokounmpo per una porzione di stagione era stato considerato un legittimo candidato MVP poi sono successe tante cose, ma soprattutto i Milwaukee Bucks sono scivolati indietro nella classifica della Eastern Conference esattamente nella stagione in cui, date le circostanze, avrebbero almeno potuto prendersi il vantaggio del campo nel primo turno. 

domenica 25 marzo 2018

MVP Review: nessuno può battere James Harden quest'anno


La corsa al titolo di MVP non è stata appassionante come un anno fa quando il mondo si era diviso tra Russell Westbrook, James Harden e nel finale prese quota la candidatura di Kawhi Leonard. Quest’anno Harden vincerà con largo margine sul secondo classificato ed esiste una piccola possibilità che come Steph Curry due anni fa vinca il titolo all’unanimità. Può starci: Harden è il miglior giocatore della miglior squadra della stagione, quella che ha stabilito il nuovo record franchigia di vittorie, ed è il miglior realizzatore della Lega, oltre i 30 di media. Quest’anno Harden figurerà per il quarto anno consecutivo nel primo quintetto All-NBA e in passato è arrivato due volte secondo nella corsa all’MVP.

giovedì 22 marzo 2018

New York Basketball Stories 2.0: l'acquisto del nemico Monroe


Il 10 novembre 1971 invece i Knicks decisero di eseguire un triplo salto mortale ed effettuare uno degli scambi più rumorosi nella storia della NBA. Girarono Mike Riordan e Dave Stallworth a Baltimore per ottenere niente di meno che Earl Monroe, il loro giustiziere dell’anno prima, il grande avversario per anni, soprattutto di Walt Frazier.

NBA Finals Story 1990-1999: The Shrug


In gara 1 tutto quel che fece Michael Jordan fu sparare, senza errori, dentro il canestro di Portland, sei fucilate da tre punti. I Blazers lo invitarono al tiro. Come molti fecero in quelle stagioni, anche a Portland pensarono che concedergli il tiro da fuori fosse il minore dei mali. Almeno avrebbe evitato di caricare di falli gli avversari attaccando l’area. 

martedì 20 marzo 2018

Toronto Raptors: da Bosh e Bargnani a DeRozan, l'evoluzione

Negli ultimi due anni i migliori tre giocatori dei Toronto Raptors sono andati a scadenza di contratto. Ogni singolo contratto in scadenza ha dato la possibilità al general manager Masai Ujiri – una storia incredibile la sua, ragazzo nigeriano emigrato negli Stati Uniti per il college e diventato un top manager nella NBA – di implodere la propria creatura e ripartire da zero prendendo atto che la squadra non era abbastanza forte da superare LeBron James o difendersi dall’ascesa di Boston, per cominciare (ma anche Philadelphia e forse Milwaukee), ma comunque troppo costosa per attrarre free-agent altrui e troppo buona per scegliere in alto nel draft. E invece Ujiri ha confermato le sue star, eseguito un capolavoro nel circondarli di giocatori giovani, a basso costo e futuribili, e ha in mano adesso una squadra che entrerà nei playoff come prima di conference e con la concreta possibilità di approdare per la prima volta nella sua storia in finale.

domenica 18 marzo 2018

L'evoluzione del gioco dei Raptors



Nurse è uno degli assistenti di Dwane Casey, uno dei sopravvissuti dei Raptors. Casey era un giovane assistente di Kentucky quando una busta spedita da lui alla recluta Chris Mills (futuro discreto giocatore NBA) contenente denaro saltò fuori in modo rocambolesco creando uno scandalo che avrebbe dovuto spazzarlo via. Casey ripartì dal Giappone, era un reietto. In seguito è riemerso prima da assistente (a Seattle ha fatto la finale del 1996, a Dallas ha vinto il titolo del 2011) e poi capo a Minnesota e infine Toronto.

sabato 17 marzo 2018

La storia dell'ascesa dei Raptors

Nel 2009/10 i Toronto Raptors vinsero 40 partite e non si qualificarono per i playoff. Bosh in quel momento vantava due apparizioni in post-season e due eliminazioni al primo turno. Non c’era modo che quei Raptors potessero diventare una squadra da titolo. E Bosh era la “spalla” più ricercata della NBA nella stagione clamorosa di “The Decision”. Chris si accodò a Dwyane Wade e LeBron James trasferendosi a Miami. I Raptors rimasero senza la loro star e costretti a ricostruire. Tuttavia Colangelo aveva già gettato basi importanti: nel 2009 aveva scelto DeMar DeRozan che nel primo anno senza Bosh ebbe 17.2 punti per gara a 21 anni di età. Nei draft successivi alla fuga di Bosh scelse Jonas Valanciunas e Terrence Ross. Nell’estate del 2012 acquistò da Houston anche Kyle Lowry. Quando nel 2013 venne sostituito da Ujiri lasciò al suo successore i tre quinti dello starting five di adesso inclusi i due All-Star, più Ross che poi Ujiri avrebbe utilizzato per prendere Ibaka da Orlando. Per quanto i Sixers di oggi siano considerati il frutto del lavoro di Sam Hinkie e delle sue drastiche idee (Trust The Process) più che di Colangelo (teoria rafforzata dal disastroso – al momento - scambio Fultz-Tatum con Boston); al tempo stesso nei Raptors di oggi c’è molto di Colangelo. Ujiri ha ricevuto una grande eredità e l’ha valorizzata bene.

venerdì 16 marzo 2018

Ecco come Toronto è diventata la miglior squadra dell'Est


Negli ultimi due anni i migliori tre giocatori dei Toronto Raptors sono andati a scadenza di contratto. Ogni singolo contratto in scadenza ha dato la possibilità al general manager Masai Ujiri – una storia incredibile la sua, ragazzo nigeriano emigrato negli Stati Uniti per il college e diventato un top manager nella NBA – di implodere la propria creatura e ripartire da zero prendendo atto che la squadra non era abbastanza forte da superare LeBron James o difendersi dall’ascesa di Boston, per cominciare (ma anche Philadelphia e forse Milwaukee), ma comunque troppo costosa per attrarre free-agent altrui e troppo buona per scegliere in alto nel draft. E invece Ujiri ha confermato le sue star, eseguito un capolavoro nel circondarli di giocatori giovani, a basso costo e futuribili, e ha in mano adesso una squadra che entrerà nei playoff come prima di conference e con la concreta possibilità di approdare per la prima volta nella sua storia in finale.

giovedì 15 marzo 2018

La perdita del Re Saltatore di Charlotte, Henry Hi-Fly Williams



Questa è davvero dura da assorbire perché Henry Williams aveva solo 47 anni, perché tutti noi siamo stati testimoni della sua intera carriera professionistica, pensando che nella NBA erano stati pazzi a non accettarne i limiti di taglia fisica per prendere tutto quello che sapeva fare con il suo tiro mancino, l’esplosività, la straordinaria velocità di piedi. Ricordo la prima volta che lo vidi fuori dal campo. C’era un ristorate vicino al palasport di Verona. Non ricordo quale partita fosse. Lui entrò, vestito bene, elegante, e dai tavoli spontaneamente si alzò un applauso che lo mise in imbarazzo. Fece un piccolo inchino, alzò il braccio. Era contento e a disagio al tempo stesso. L’ultima volta fu in America: aveva smesso di giocare presto dopo gli anni di Verona, Treviso, Roma e Napoli. Lavorava come commentatore televisivo per Charlotte. In fondo era anche quello un modo per raggiungere la NBA. Parlava ancora in modo accettabile l’italiano. Da tempo era un pastore battista – la religione sempre al primo posto della sua vita – ma faceva tante cose, aveva sostenuto altre attività imprenditoriali, anche con la moglie. Fare l’analista televisivo gli permetteva di rimanere a contatto con il basket in un posto in cui aveva giocato solo a livello universitario ma dov’era una leggenda. Era allegro, felice, una persona di successo, in pace con sé stesso e con la vita. Era prima del 2009 quando gli dissero che i suoi reni non funzionavano più e non sapevano spiegarsi perché. Da quel momento otto ore al giorno di dialisi: comprò la macchina per evitare di dover andare in ospedale tutti i giorni e poterla usare a casa. E provava a vivere come se fosse ancora Hi-Fly Williams, il più grande realizzatore nella storia di North Carolina-Charlotte. Predicava tutte le settimane ai fedeli, non aveva perso fede, fiducia, entusiasmo. La vita l’aveva colpito duramente ma non l’aveva spento. Almeno fino a ieri.

mercoledì 14 marzo 2018

New York Basketball Stories 2.0: Frazier l'uomo che veniva dalla povertà



Frazier era il più anziano di nove figli di una famiglia poverissima di Atlanta in Georgia in un’epoca in cui per gli afroamericani il sud del paese non era proprio il luogo più piacevole in cui vivere. Giocava alla Howard High School e diventò una stella, il miglior giocatore della Georgia ma con pochissima visibilità perché confinato nelle competizioni per soli ragazzi di colore nelle palestre ghettizzate di scuole nere. Non venne neanche considerato dai college della zona, tipo Georgia Tech, che anni dopo avrebbe attinto ripetutamente dalle strade di New York (Kenny Anderson, Stephon Marbury), o Georgia.

martedì 13 marzo 2018

New York Basketball Stories 2.0: l'ingresso di Willis Reed zoppicante



Fu Veronica Reed, la figlia di Willis, in Louisiana, la prima a sapere. Rientrato da Los Angeles, Reed si era fatto massaggiare da Whelan, si era sottoposto a mille trattamenti, ultrasuoni, impacchi, idromassaggi, poi era tornato a casa, a Rego Park, nel Queens, in attesa del grande giorno. Quando arrivò al Garden si cambiò e andò ad eseguire qualche tiro in campo ma zoppicando vistosamente. Chiamò Veronica mentre i compagni erano già in campo per il riscaldamento. Le disse che avrebbe provato. Nel suo cuore orgoglioso di ragazzo del sud, della Louisiana, non c’era spazio per i tentennamenti. Nessuno avrebbe mai detto che i Knicks avevano perso il titolo perché Reed non aveva giocato. Il dottor James Parkes si presentò in spogliatoio con una siringa enorme, adatta alle vene di Willis, e gli iniettò 300 cc di carbocaina, l’antidolorifico più potente in circolazione. Reed si avviò verso il tunnel che conduce al campo. Fu accolto da un boato. Era come un urlo di liberazione per i tifosi dei Knicks. I suoi due tiri di riscaldamento furono i più inutili e seguiti della storia. Addirittura ci fu chi esultò quando andarono dentro…

sabato 10 marzo 2018

NBA Finals Story 1990-1999: i Chicago Bulls



Chicago è una bellissima metropoli adagiata sul Lago Michigan e colpita da un vento fortissimo e spesso gelido che le è valso il nomignolo di The Windy City per quanto nessuno a Chicago l'abbia mai definita cosi. Anzi. Molti abitanti rifiutano persino il concetto di città tremendamente ventosa menzionando statistiche che non la collocano tra le prime cinque città più ventose d'America. Non importa cosa dicano le statistiche: il vento è forte e Chicago è fredda. Michigan Avenue è l'arteria principale. Una parte di essa è detta The Magnificent Mile per i negozi e ristoranti di lusso. Il resto della città è costruita attorno ad essa, vita notturna inclusa. In questa zona di Chicago a quei tempi, su La Salle, c'era anche il ristorante di Michael Jordan, che negli anni sarebbe diventato un'altra delle attrazioni turistiche del luogo. 

venerdì 9 marzo 2018

NBA Finals Story 1990-1999: Joe Dumars

La limousine era pronta fuori dal Memorial Coliseum di Portland. All'aeroporto un jet privato del proprietario dei Detroit Pistons, Bill Davidson, lo stava aspettando. Tutto quel che restava da fare era comunicare a Joe Dumars che 90 minuti prima della palla a due di gara 3 della Finale NBA del 1990 il padre Joe jr aveva lasciato la terra nella sua casa di Natchitoches in Louisiana. Non era una notizia inaspettata. Joe jr stava male da tempo, le sue condizioni erano peggiorate nelle due settimane precedenti e Joe Dumars III, il più giovane dei suoi sette figli, aveva dato istruzioni precise su come gestire la scomparsa se fosse coincisa con il giorno di una partita. Aveva chiesto che lo lasciassero giocare salvo informarlo solo alla fine. A quel punto sarebbe rientrato a casa per il funerale.

mercoledì 7 marzo 2018

Update: Mike D'Antoni e l'evoluzione dei Rockets



I Rockets hanno vinto a Oklahoma City, dominando, la loro sedicesima partita consecutiva. In altri tempi sarebbero stati i favoriti proibitivi nella corsa al titolo NBA che non vincono dal 1995 ma questi sono i tempi dei Warriors e Golden State merita di essere ancora considerata la squadra da battere. Ma l'esito della stagione non toglierà nulla alla statura ormai leggendaria di Mike D'Antoni come allenatore. Due volte coach dell'anno se non vincerà il trofeo quest'anno sarà principalmente perché mai viene dato due anni di fila allo stesso coach. Brad Stevens a Boston e Dwane Casey a Toronto sono legittimi candidati. Qui però vorrei aggiornare la storia di allenatore di Mike D'Antoni.

sabato 3 marzo 2018

"NBA Finals Story" ora anche in edizione cartacea

Per coloro a cui dovesse interessare adesso la versione 2.0 di "NBA Finals Story 1990-1999" è disponibile su Amazon anche in formato cartaceo. Sono 502 pagine inclusi i contenuti extra rispetto alla versione originale, rivista e aggiornata. Eccolo qui.

venerdì 2 marzo 2018

"New York Basketball Stories 2.0" ora anche su carta

A grande richiesta (!!!) adesso la versione 2.0 di "New York Basketball Stories" è disponibile su Amazon anche nel formato cartaceo. Così spero di aver accontentato in qualche modo i - fortunatamente - tanti nemici dei libri in formato digitale che hanno peraltro il pregio di poter costare molto meno (e il difetto che non puoi esporli in alcuna libreria per cui - essendomi adattato - la mia personale si ferma a diversi anni fa). Eccolo qui.

mercoledì 28 febbraio 2018

Il giorno maledetto in cui perdemmo Drazen Petrovic



Dove eravate – se c’eravate visto che parliamo del 1993 – quando Drazen Petrovic perse la vita su un’autostrada tedesca? Cosa stavate facendo quando la notizia vi arrivò sulla mascella come un terribile colpo da knock-out? Era il giugno del 1993. Io ero a JFK, l’aeroporto di New York, in attesa del volo per Phoenix dove l’indomani avrei assistito alla prima partita della Finale NBA tra i Bulls e i Suns. Avevo lasciato l’Italia molte ore prima quando la notizia non era ancora diventata di dominio pubblico. A New York acquistai una copia di USA Today, la meravigliosa versione statunitense che da noi arrivava in formato ridotto, con le sue quattro o cinque sezioni complete, quella sportiva strepitosa. Davide Dupree era la prima firma del primo quotidiano americano autenticamente nazionale. Il grande Peter Vecsey scriveva tre volte alla settimana il suo “Hoop du Jour”, la rubrica più potente che sia mai stata scritta nel basket americano ma potrei dire mondiale. A quei tempi le notizie le apprendevi così: seppi che Drazen era morto acquistando USA Today.

domenica 25 febbraio 2018

La multa a Cuban: il problema del tanking non si risolve ignorandolo

Mark Cuban ha vissuto una settimana infernale: un'indagine di Sports Illustrated ha smascherato una cultura da "Animal House", come è stata etichettata negli uffici dei Dallas Mavericks, con reiterate, sgradevoli storie di molestie a sfondo sessuale per le quali ha dovuto scusarsi e licenziare persone autoaccusandosi delle mancanze del sistema di controllo. Nel frattempo aveva avuto la cattiva idea di ammettere, in un'intervista radiofonica concessa a Julius Erving, nientemeno, che la miglior opzione per i Mavs è perdere il maggior numero possibile di partite. La dichiarazione gli è costata 600.000 dollari. La più alta multa mai comminata ad un proprietario. Ritocca il mezzo milione che gli venne inflitto per aver attaccato l'allora responsabile degli arbitri Ed Rush.

sabato 24 febbraio 2018

Trust The Process: a che punto siamo Philadelphia?



E’ molto probabile che a South Philly quest’anno si giocheranno partite di playoffs. Magari non molte, partendo dalla posizione attuale, la settima nella Eastern Conference, ma è significativo perché per la prima volta da molti anni i Sixers non stanno giocando solo per il futuro. Un possibile scontro di post-season con i Boston Celtics sarebbe un trionfo per i nostalgici dell’era in cui due delle franchigie storiche della Lega si contendevano su base annua l’accesso alla Finale NBA. Per otto anni, dal 1980 al 1987, l’Est è stato rappresentato in Finale dai Sixers o dai Celtics. L’ultimo titolo vinto da Philadelphia risale al 1983, l’ultima Finale al 2001, all’apice dell’era firmata da Allen Iverson. Non è un mistero che il futuro dei Sixers sia spettacolare: tre dei giocatori del quintetto base hanno 23 anni o meno, due di essi hanno potenziale da MVP (Joel Embiid e Ben Simmons; il terzo uomo è Dario Saric), un quarto ha 27 anni (Robert Covington). In altre parole, hanno il personale e l’età per competere al vertice per i prossimi 10 anni con una squadra costruita attorno a tre o quattro giocatori già presenti nel roster tra i quali solo Covington è già al top del proprio rendimento. L’unica vera incognita è rappresentata dal fisico di Embiid, che tecnicamente sarebbe al quarto anno nella Lega ma di fatto è poco più di un rookie.

sabato 17 febbraio 2018

Perché Andre Roberson era così importante a Oklahoma City



Può una guardia da 5.0 punti di media e il 22% nel tiro da tre rivelarsi il giocatore più importante di una squadra NBA potenzialmente di vertice? Il caso Andre Roberson è singolare: per mesi è stato considerato – con tutto il rispetto per la sua straordinaria attitudine difensiva – l’anello debole del quintetto degli Oklahoma City Thunder. Lui è il giocatore che gli avversari mandano in lunetta volontariamente, che ignorano completamente quando è in attacco sfidandolo a tirare per difendere in cinque contro gli altri quattro. Nelle cinque gare giocate contro Houston nei playoff del 2017, Roberson ha fatto il 14.3% dalla lunetta eseguendo 5.5 liberi di media, tantissimi. I Rockets lo mandavano in lunetta come strategia con risultati eccellenti. In altre parole, i suoi problemi come tiratore obbligavano il Coach Billy Donovan a sostituirlo in certi momenti per reinserirlo solo negli ultimi due minuti quando l’”hack” premeditato non è più consentito. I limiti di Roberson come tiratore sono imbarazzanti. Quest’anno prima di infortunarsi in modo definitivo aveva il 31.6% dalla lunetta e il 22.2% da tre punti. Eppure…

venerdì 9 febbraio 2018

I Cavs scommettono che la cessione di IT ai Lakers non sarà un autogol



Quindi i Cleveland Cavaliers hanno consegnato ai Los Angeles Lakers i mezzi per provare davvero a convincere LeBron James a trasferirsi sulla Costa Ovest. Non sarà possibile valutare la clamorosa ristrutturazione della squadra operata oltre la metà della stagione dai Cavs fino a che non conosceremo la decisione di LeBron quando sarà free-agent il prossimo primo luglio. Per il momento, il nuovo general manager Koby Altman ha alzato la pressione su sé stesso in modo incredibile. 

giovedì 8 febbraio 2018

L'infortunio di KP: cosa significa per i Knicks



Può essere che tra qualche anno l’infortunio occorso a Kristaps Porzingis e i 10 mesi in cui – minimo, perché è ipotizzabile un approccio prudente al rientro – sarà assente venga ricordato come il momento della svolta nella storia dei Knicks. Oggi come ha detto il general manager Scott Perry è normale avvertire solo tanto dispiacere per il ragazzo.

domenica 4 febbraio 2018

Quale futuro per DeMarcus Cousins, i Pelicans e AD?



La rottura del tendine d’Achille che impedirà a DeMarcus Cousins di giocare nel suo quarto All-Star Game consecutive ha potenti ripercussioni sul futuro suo, dei New Orleans Pelicans e di conseguenza del giocatore che tutti i club con aspirazioni di titolo seguono a distanza nel caso dovesse muoversi: Anthony Davis.

giovedì 1 febbraio 2018

Blake Griffin: il punto di vista di Detroit



Detroit aveva bisogno di un colpo. Blake Griffin lo è. Il tempo a disposizione di Stan Van Gundy, allenatore ma anche presidente dei Pistons, per mostrare qualcosa di promettente stava per scadere. In quattro anni è chiaramente sotto il 50% di vittorie, vanta una sola partecipazione ai playoff e nessuna vittoria in post-season. In ogni caso non sembrava più così saldo e aveva necessità di fare qualcosa che invertisse la rotta, nel momento in cui la squadra si è trasferita nel cuore di Detroit – downtown è stata riprogrammata dopo un lungo periodo di difficoltà in cui la città era di fatto fallita – ma non era di moda.

martedì 30 gennaio 2018

Blake Griffin: il punto di vista dei Clippers



La fine di “Lob City”, sancita dalla defezione di Chris Paul, aveva messo i Clippers in una situazione molto difficile in estate, in mezzo al guado tra la ricostruzione o il tentativo di rimanere ancora competitivi a dispetto di una perdita devastante come quella del cosiddetto “Point-God” con cui – va ricordato – comunque i Clippers non sono mai andati oltre il secondo turno dei playoffs. In estate i Clippers non erano pronti ad arrendersi e accettare un ruolo minore, per tanti motivi, alcuni commerciali (prezzi dei biglietti alzati, trattative in corso per un nuovo impianto, la battaglia per la torta televisiva nella zona di Los Angeles, i Lakers del nuovo corso), e altri più strettamente agonistici. In fondo si erano illusi di essere più forti di quello che erano o forse erano stati solo più sfortunati di altre squadre. Fatto sta che la perdita di Paul, in minima parte compensata dai giocatori arrivati da Houston principalmente Lou Williams, non ha convinto Steve Ballmer, il supermiliardario proprietario del club, a staccare la spina e ripartire. I Clippers hanno provato a rimanere rilevanti prendendo Danilo Gallinari – e non sono stati fortunati, visto che praticamente per ora non ha giocato – e soprattutto estendendo Blake Griffin.