Dove eravate – se c’eravate visto che parliamo del 1993 –
quando Drazen Petrovic perse la vita su un’autostrada tedesca? Cosa stavate
facendo quando la notizia vi arrivò sulla mascella come un terribile colpo da
knock-out? Era il giugno del 1993. Io ero a JFK, l’aeroporto di New York, in
attesa del volo per Phoenix dove l’indomani avrei assistito alla prima partita
della Finale NBA tra i Bulls e i Suns. Avevo lasciato l’Italia molte ore prima
quando la notizia non era ancora diventata di dominio pubblico. A New York
acquistai una copia di USA Today, la meravigliosa versione statunitense che da
noi arrivava in formato ridotto, con le sue quattro o cinque sezioni complete,
quella sportiva strepitosa. Davide Dupree era la prima firma del primo
quotidiano americano autenticamente nazionale. Il grande Peter Vecsey scriveva
tre volte alla settimana il suo “Hoop du Jour”, la rubrica più potente che sia
mai stata scritta nel basket americano ma potrei dire mondiale. A quei tempi le
notizie le apprendevi così: seppi che Drazen era morto acquistando USA Today.
Opinioni, analisi e i miei libri: il mondo del basket americano visto da me di Claudio Limardi
mercoledì 28 febbraio 2018
domenica 25 febbraio 2018
La multa a Cuban: il problema del tanking non si risolve ignorandolo
Mark Cuban ha vissuto una settimana infernale: un'indagine di Sports Illustrated ha smascherato una cultura da "Animal House", come è stata etichettata negli uffici dei Dallas Mavericks, con reiterate, sgradevoli storie di molestie a sfondo sessuale per le quali ha dovuto scusarsi e licenziare persone autoaccusandosi delle mancanze del sistema di controllo. Nel frattempo aveva avuto la cattiva idea di ammettere, in un'intervista radiofonica concessa a Julius Erving, nientemeno, che la miglior opzione per i Mavs è perdere il maggior numero possibile di partite. La dichiarazione gli è costata 600.000 dollari. La più alta multa mai comminata ad un proprietario. Ritocca il mezzo milione che gli venne inflitto per aver attaccato l'allora responsabile degli arbitri Ed Rush.
sabato 24 febbraio 2018
Trust The Process: a che punto siamo Philadelphia?
E’ molto probabile che a South Philly quest’anno si
giocheranno partite di playoffs. Magari non molte, partendo dalla posizione
attuale, la settima nella Eastern Conference, ma è significativo perché per la
prima volta da molti anni i Sixers non stanno giocando solo per il futuro. Un
possibile scontro di post-season con i Boston Celtics sarebbe un trionfo per i
nostalgici dell’era in cui due delle franchigie storiche della Lega si
contendevano su base annua l’accesso alla Finale NBA. Per otto anni, dal 1980
al 1987, l’Est è stato rappresentato in Finale dai Sixers o dai Celtics. L’ultimo
titolo vinto da Philadelphia risale al 1983, l’ultima Finale al 2001, all’apice
dell’era firmata da Allen Iverson. Non è un mistero che il futuro dei Sixers
sia spettacolare: tre dei giocatori del quintetto base hanno 23 anni o meno,
due di essi hanno potenziale da MVP (Joel Embiid e Ben Simmons; il terzo uomo è Dario Saric), un quarto ha
27 anni (Robert Covington). In altre parole, hanno il personale e l’età per
competere al vertice per i prossimi 10 anni con una squadra costruita attorno a
tre o quattro giocatori già presenti nel roster tra i quali solo Covington è
già al top del proprio rendimento. L’unica vera incognita è rappresentata dal
fisico di Embiid, che tecnicamente sarebbe al quarto anno nella Lega ma di
fatto è poco più di un rookie.
sabato 17 febbraio 2018
Perché Andre Roberson era così importante a Oklahoma City
Può una guardia da 5.0 punti di media e il 22% nel tiro da
tre rivelarsi il giocatore più importante di una squadra NBA potenzialmente di
vertice? Il caso Andre Roberson è singolare: per mesi è stato considerato – con
tutto il rispetto per la sua straordinaria attitudine difensiva – l’anello
debole del quintetto degli Oklahoma City Thunder. Lui è il giocatore che gli
avversari mandano in lunetta volontariamente, che ignorano completamente quando
è in attacco sfidandolo a tirare per difendere in cinque contro gli altri
quattro. Nelle cinque gare giocate contro Houston nei playoff del 2017,
Roberson ha fatto il 14.3% dalla lunetta eseguendo 5.5 liberi di media,
tantissimi. I Rockets lo mandavano in lunetta come strategia con risultati
eccellenti. In altre parole, i suoi problemi come tiratore obbligavano il Coach
Billy Donovan a sostituirlo in certi momenti per reinserirlo solo negli ultimi
due minuti quando l’”hack” premeditato non è più consentito. I limiti di
Roberson come tiratore sono imbarazzanti. Quest’anno prima di infortunarsi in
modo definitivo aveva il 31.6% dalla lunetta e il 22.2% da tre punti. Eppure…
venerdì 9 febbraio 2018
I Cavs scommettono che la cessione di IT ai Lakers non sarà un autogol
Quindi i Cleveland Cavaliers hanno consegnato ai Los Angeles
Lakers i mezzi per provare davvero a convincere LeBron James a trasferirsi
sulla Costa Ovest. Non sarà possibile valutare la clamorosa ristrutturazione
della squadra operata oltre la metà della stagione dai Cavs fino a che non conosceremo
la decisione di LeBron quando sarà free-agent il prossimo primo luglio. Per il
momento, il nuovo general manager Koby Altman ha alzato la pressione su sé
stesso in modo incredibile.
giovedì 8 febbraio 2018
L'infortunio di KP: cosa significa per i Knicks
Può essere che tra qualche anno l’infortunio occorso a
Kristaps Porzingis e i 10 mesi in cui – minimo, perché è ipotizzabile un
approccio prudente al rientro – sarà assente venga ricordato come il momento
della svolta nella storia dei Knicks. Oggi come ha detto il general manager
Scott Perry è normale avvertire solo tanto dispiacere per il ragazzo.
domenica 4 febbraio 2018
Quale futuro per DeMarcus Cousins, i Pelicans e AD?
La rottura del tendine d’Achille che impedirà a DeMarcus
Cousins di giocare nel suo quarto All-Star Game consecutive ha potenti
ripercussioni sul futuro suo, dei New Orleans Pelicans e di conseguenza del
giocatore che tutti i club con aspirazioni di titolo seguono a distanza nel
caso dovesse muoversi: Anthony Davis.
giovedì 1 febbraio 2018
Blake Griffin: il punto di vista di Detroit
Detroit aveva bisogno di un colpo. Blake Griffin lo è. Il
tempo a disposizione di Stan Van Gundy, allenatore ma anche presidente dei
Pistons, per mostrare qualcosa di promettente stava per scadere. In quattro
anni è chiaramente sotto il 50% di vittorie, vanta una sola partecipazione ai
playoff e nessuna vittoria in post-season. In ogni caso non sembrava più così
saldo e aveva necessità di fare qualcosa che invertisse la rotta, nel momento
in cui la squadra si è trasferita nel cuore di Detroit – downtown è stata
riprogrammata dopo un lungo periodo di difficoltà in cui la città era di fatto
fallita – ma non era di moda.
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