sabato 27 gennaio 2018

La storia della finale di Monaco 1972 raccontata da Mosca



La finale olimpica di Monaco 1972 è stata probabilmente la partita più famosa di basket più famosa, discussa, analizzata della storia. Certamente non la più bella, neppure a livello olimpico, ma la più popolare. A Monaco, pochi giorni dopo il massacro degli atleti israeliani nella palazzina di Connollystrasse, gli USA persero la prima partita olimpica della loro storia dopo sette medaglie d’oro e dopo aver sconfitto in semifinale proprio l’Italia di Giancarlo Primo in modo inequivocabile. Ma la partita delle partite, in piena guerra fredda, era quella contro l’Unione Sovietica che sconfisse Cuba in semifinale. In sintesi la storia di quella partita è questa: l’URSS dominò in lungo e in largo ma senza uccidere una gara giocata a ritmi molto bassi, difensiva, con pochi canestri; gli USA si sbloccarono negli ultimi cinque minuti di partita e completarono la rimonta quando la guardia Doug Collins – che poi ebbe un eccellente carriera nella NBA sia da giocatore che da allenatore – intercettò un passaggio, andò sparato a canestro e con tre secondi da giocare subì un evidente fallo, punito con due tiri liberi. Claudicante, Collins andò in lunetta con la benedizione del coach Hank Iba, un duro del Missouri che aveva avuto una carriera leggendaria a Oklahoma State ma contro il parere degli assistenti che avevano suggerito un’opportuna sostituzione. Il ventenne Collins andò in lunetta e senza battere ciglio centrò entrambi i liberi. E il resto è tutto quello che conta…

I sovietici effettuarono la rimessa ma quando la palla raggiunse quasi la metà campo gli arbitri fermarono il gioco per placare la violenta protesta dell’allenatore sovietico Kondrashin. Il coach sosteneva di aver chiesto time-out e quindi l’azione andava fermata per riprendere dopo il minuto di sospensione. Ma la richiesta era stata irregolare e forse mai effettuata. Tuttavia i sovietici avevano rimesso e bruciato il tempo. Giusto o sbagliato, gli arbitri (Artenik Arabadjan, un bulgaro, e il brasiliano Renato Righetto) decisero per riprendere il gioco dai tiri liberi di Collins. concedendo di fatto una nuova opportunità all'URSS. Yvan Edeshko eseguì la rimessa a tutto campo ma il passaggio lungo venne toccato, risultando incompleto, la sirena suonò, la partita era finita. Gli americani esultarono in mezzo al campo convinti di poter celebrare lo scampato pericolo. Ma al tavolo le discussioni ripresero. Parlando di un errore nel resettare il cronometro (ad un certo punto le immagini lo mostrano mentre indica 50 secondi), si decise con l’intervento del segretario generale della FIBA (il Patrick Baumann di oggi), che ovviamente non avrebbe dovuto avere alcun potere in quel contesto, di far giocare l’ultimo pallone ai sovietici una terza volta con tre secondi da giocare. Ci furono altre stranezze: l’arbitro Righetto cacciò via dal pressing Tom McMillen che invece aveva il diritto di ostacolare la rimessa (probabilmente l’arbitro intendeva solo indicare a McMillen la distanza a cui doveva collocarsi ma il centro andò letteralmente via); il passaggio a tutto campo di Edeshko fu viziato da un’infrazione di piede non rilevata; Belov ricevendo palla commise forse infrazione di passi e forse anche un fallo in attacco. In ogni caso segnò e la partita finì così, 51-50 per l’URSS. Gli americani sporsero reclamo ma la commissione era formata da cinque giudici: i tre appartenenti a nazioni del blocco dell’est votarono contro; i due occidentali a favore. Così il verdetto del campo fu confermato. Gli americani non hanno mai ritirato le loro medaglie. Secondo il Grande Aldo Giordani, che era a Monaco, gli arbitri sbagliarono fermando il gioco sulla prima rimessa; in totale confusione sbagliarono a non rilevare alcuna infrazione sulla rimessa decisiva ma fu William Jones (visibile dietro il tavolo in una posizione non corretta con tre dita alzate a indicare i secondi da rigiocare) a decidere a decidere per la terza ripetizione. E sempre secondo Giordani intendeva ingraziarsi politicamente in eterno i sovietici immaginando che il risultato non sarebbe cambiato.


In ogni caso la storia di quella partita è stata raccontata mille volte, in tutto il mondo, può essere vista e rivista su youtube come ho fatto io, ma sempre dal punto di vista americano. Qualche volta sono stati intervistati Kondrashin o altri giocatori della Nazionale sovietica, arroccati sulle loro posizioni ma senza fornire troppe spiegazioni. Ma in queste settimane in Russia è uscito “Going Vertical”, film prodotto localmente e pare di grande successo. Non è un documentario ma un film che ricostruisce il percorso vincente di quella Nazionale sovietica. E’ interessante perché per una volta si possono osservare le cose in modo diverso. La pellicola è certamente romanzata: gli americani sembrano fenomeni atletici quando invece erano una squadra di  talento normale, senza stelle, e ovviamente molto più giovane e inesperta di quella sovietica; qualche storia umana è impreziosita come ad esempio i problemi al cuore di Alexander Belov (scoperti non prima dei Giochi ma dopo la sua morte nel 1978). Ma la vita dei giocatori quando viaggiavano all’estero pare sia ben descritta; così come l’atteggiamento dei dirigenti sovietici, non solo sportivi, che in piena guerra fredda non volevano assistere ad una sconfitta sovietica contro gli americani in uno sport così popolare sotto gli occhi del mondo. Kondrashin dovette combattere anche contro questi ostacoli o l’idea di ritirare la squadra dopo la strage degli israeliani come scusa per evitare il confronto con gli americani. Ma è proprio lui a uscire come eroe positivo della storia: voleva vincere per avere la possibilità di portare la figlia malata ad operarsi all’estero, non avendo fiducia nella medicina sovietica dell’epoca. Il film finisce con i giocatori che gli regalano i loro premi, ottenuti sottobanco, per permettergli di realizzare il suo obiettivo.
La partita, la storia, resta affascinante anche a quasi cinquanta anni di distanza. I giocatori americani ancora oggi lamentano la scelta di Iba come allenatore: aveva vinto i Giochi nel 1964 e nel 1968 ma era superato nel 1972 e troppo ostinatamente arroccato sui suoi principi quando ormai in America avevano deviato verso un basket veloce, atletico, offensivo che la lenta, grossa, compassata squadra sovietica non avrebbe mai retto. Iba scelse una squadra adatta al suo gioco ma modesta anche se cinque giocatori furono scelti al primo giro dei draft del 1973 (Collins all’1, Jim Brewer al 2, Mike Bantom all’8, Dwight Jones al 9 e Kevin Joyce all’11 nessuno di loro però ha avuto una carriera NBA di livello). Non c’era Bill Walton (primo uomo scelto nel 1974), il miglior collegiale dell’epoca; non c’era Jamaal Wilkes.
Certamente il finale fu irregolare e gli americani nel non ritirare le medaglie d’argento presero una decisione forte sulla quale si può discutere (non è un disonore l’argento olimpico ma non è questo il punto, sostengono). Ma la vittoria sovietica da un punto di vista strettamente cestistico non fu immeritata, anche se a 12 minuti dalla fine uno scambio di pugni determinò l’espulsione di Mishako Korkia, un giocatore minore, e di Dwight Jones che cadde nel tranello ed era il primo realizzatore della squadra americana. Tuttavia dopo l’episodio gli americani rimontarono.
Però è comprensibile che i sovietici celebrino quella vittoria storica, più di quanto abbiano mai fatto per quella del 1988 a Seul in cui il cuore della squadra era baltico. Nel 1980 alle Olimpiadi invernali di Lake Placid i collegiali americani sconfissero il terrificante squadrone sovietico di hockey. Fu la partita del “Do You Believe in Miracles?”. Monaco 1972 fu lo stesso tipo di partita – a parti invertite – per i sovietici.

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