lunedì 23 gennaio 2017

New York Knicks: analisi di un ventennio di fallimenti

La storia vincente dei Knicks che pur senza essere davvero tale era durata per tutti gli anni '90 fini il 29 giugno 1999 quando la squadra, persa la seconda Finale del decennio contro gli Spurs, sbagliò in modo pacchiano la propria prima scelta.
Quell'anno una squadra relativamente giovane (Allan Houston. Latrell Sprewell. Marcus Camby. Kurt Thomas) con due veterani acciaccati ma ascoltatissimi in spogliatoio ovvero Patrick Ewing e Larry Johnson, aveva la possibilità di selezionare a metà del primo giro.
Il coach Jeff Van Gundy era un miracolato: se nel primo turno dei playoffs nella decisiva gara 5 di Miami il jumper dal gomito di Houston fosse rimbalzato dalla parte sbagliata, il coach dei Knicks sarebbe diventato Phil Jackson. Ma la straordinaria galoppata dei Knicks dal numero 8 alla Finale NBA obbligò il club a estendere Van Gundy spingendo Jackson verso i Lakers. Van Gundy voleva Ron Artest, newyorkese duro. Difensore. Il perfetto giocatore di Van Gundy. Ma lui e il management non avevano le stesse idee. Lui aveva già sopportato a fatica la cessione di Charles Oakley per Camby.
Il general manager era Ed Tapscott perché Ernie Grunfeld era stato licenziato durante la stagione. Tapscott scelse ignorando il suo allenatore. Scelse Frederic Weis. 2.18 da Limoges. Soft. Senza cuore. In un'epoca in cui gli europei partivano sempre un paio di giri indietro. Weis non avrebbe mai giocato nei Knicks. Non avrebbe mai giocato nella NBA. Una scelta sprecata. Un'opportunità buttata via.
Di lì a poco i Knicks - che nel 2000 arrivarono a due vittorie da una seconda Finale consecutiva - avrebbero assistito alla cessione di Ewing, il ritiro di Larry Johnson e poi la perdita di Sprewell e le dimissioni di Van Gundy. Il proprietario James Dolan avrebbe saltuariamente interferito con tutti i suoi successivi manager e sarebbe nato quello che ormai possiamo considerare un ventennio di incredibili frustrazioni.
I Knicks hanno avuto allenatori di ogni tipo, grandi nomi (Larry Brown e Mike D’Antoni reduce dagli anni di Phoenix) e grandi scommesse (Mike Woodson e Derek Fisher ma anche Jeff Hornacek).  Hanno affidato le chiavi del club a manager capaci come Scott Layden e di grande nome ma modi agghiaccianti (Isiah Thomas), a manager esperti e rispettati (Donnie Walsh, nettamente il migliore) o totalmente inesperti anche se dal nome altisonante come Phil Jackson, il più pagato executive della storia. Risultati? Zero.
Ci sono stati momenti di promettente entusiasmo: i giovani Knicks di D'Antoni con Amar'e Stoudemire e Danilo Gallinari, poi quelli di Jeremy Lin, la stagione di Carmelo Anthony da capo cannoniere, e anche negli ultimi due anni bagliori folgoranti provenienti dall'unicorno lettone Kristaps Porzingis oggi l'unica ragione per cui New York ha ancora una franchigia rilevante. Ma mai un progetto. Jackson non ha appesantito troppo il futuro della squadra nel tentativo di prendere scorciatoie pur sbagliando ad esempio con Joakim Noah e i suoi prossimi tre anni di contratto. Ma non ha imboccato una direzione esatta tanto che alla fine la specialità della casa da anni è quella di accumulare giocatori di grande nome e  grande passato sperando che possano giocare come facevano cinque anni prima.
Alcuni esempi: Stephon Marbury poi Steve Francis insieme (sotto) pensando potessero essere come Frazier e Monroe; Penny Hardaway; Baron Davis; Tracy McGrady; fino a Derrick Rose. I Knicks hanno convinto un solo free-agent di spessore a unirsi a loro e sapevano che Stoudemire non avrebbe avuto più di due stagioni di efficacia nelle gambe. Carmelo Anthony sarebbe stato il secondo se Dolan non avesse forzato la mano per prenderlo con uno scambio con il risultato di sacrificare cinque o sei anni di lavoro rinunciando  a Gallinari, Chandler e Mozgov soprattutto.


LeBron James li ha bocciati. Come Dwyane Wade e Chris Bosh (Stoudemire era il quarto free-agent del 2010). Kevin Durant neppure ricevuti. È stato un segnale importante. Non sono considerati da chi è al top né rilevanti né vicini a diventarlo.
Anche se l'approccio di Jackson è stato molto diverso da quello ad esempio dell'era Thomas, i Knicks non hanno mai totalmente accettato l'idea di ricostruire, nella speranza ingenua di poter affrettare il ritorno al vertice con  risultati evidentemente catastrofici. Solo Walsh ci aveva provato smembrando la squadra di contratti pesanti per arrivare al mercato del 2010 con enormi mezzi salariali. Ma una vera scommessa sul draft ad esempio non è mai stata fatta. I Knicks anzi le scelte le hanno sacrificate più che accumulate. E oggi tra i critici locali c'è chi invidia i Sixers e il loro Processo anche se in Porzingis un elemento attorno al quale costruire  (come a Philadelphia hanno Joel Embiid) lo avrebbero.
Phil Jackson in tre anni da Presidente ha fatto vedere ancora troppo poco. Quando salì a bordo ci si domandava se avrebbe davvero abbracciato questo lavoro sul piano dell'impegno e della presenza a New York, lui che sentimentalmente era molto legato a Los Angeles. I fatti da questo punto di vista sono stati rassicuranti. Jackson - che non ha più legami con Jeanie Buss, la proprietaria dei Lakers - e'  sempre stato presente e coinvolto. Ma anche ancorato ad un modo di fare basket antico in campo (vedi l'uso esasperato del Triangolo) e fuori. È deprimente che i due allenatori che aveva identificato - due delfini - l'abbiano respinto. Prima Steve Kerr e da ultimo Luke Walton.


Il rendimento della squadra di quest'anno è inferiore alle aspettative e soprattutto si erano viste cose promettenti fino ad un mese fa. Ma i difetti immaginati in estate come la panchina (migliorata di recente con Kyle O'Quinn e Ron Baker, poi promosso titolare, o Kuzminskas o infine lo spagnolo Wily Hernangomez) o la modestia difensiva dei giocatori più importanti come Rose e Anthony, si sono palesati in modo inequivocabile.
In più a New York tutto viene ingigantito nelle proporzioni. La fuga a casa di Rose. La spaccatura tra Jackson e Anthony.  Nulla è necessariamente compromesso perché i Knicks mantengono i prossimi diritti di scelta e potrebbero fare qualche buon colpo tanto che tirare i remi in barca e sviluppare i giovani della panchina più Porzingis in un ruolo da leader è stato un passo sofferto ma intelligente. Inoltre tranne Noah gli altri veterani vanno a scadenza e le possibilità che Rose resti sono prossime allo zero. Non sta giocando male. Anzi piace perché ha energia, è tornato a esplodere e portare il suo motore a giri altissimi. Ma la sua mediocrità difensiva è cronica. Non è un giocatore sul quale investire. Era chiaro che prenderlo fosse un tentativo più che un progetto. È andata come si supponeva potesse andare. Ci sono almeno cinque point-man nel draft che potrebbero essere perfetti per i Knicks ma non oltre la 10. Lonzo Ball di UCLA e Markelle Fultz di Washington sono i più quotati. Melo va a scadenza nel 2018. Ha potere di veto su ogni trade ma la sensazione è che età e fisico del giocatore non siano (per la verità era così anche nel 2014 quando estese il contratto) coerenti con uno sviluppo realistico della squadra. Quale mercato possa avere è un altro discorso.
Adesso l'ultimo tentativo sarà utilizzare Porzingis da centro per forzare Anthony da ala forte e allargare il campo. Offensivamente potrebbe essere la versione del Death Line Up in salsa newyorkese. Ma difensivamente il lettone e Melo non sono certo Draymond Green. Di sicuro alla fine del terzo anno a New York, Phil Jackson qualcosa dovrà mostrare. Se non un alto livello di competitività nei playoffs almeno due pedine sulle quali costruire.  Una è Porzingis e l'altra?

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