mercoledì 7 marzo 2018

Update: Mike D'Antoni e l'evoluzione dei Rockets



I Rockets hanno vinto a Oklahoma City, dominando, la loro sedicesima partita consecutiva. In altri tempi sarebbero stati i favoriti proibitivi nella corsa al titolo NBA che non vincono dal 1995 ma questi sono i tempi dei Warriors e Golden State merita di essere ancora considerata la squadra da battere. Ma l'esito della stagione non toglierà nulla alla statura ormai leggendaria di Mike D'Antoni come allenatore. Due volte coach dell'anno se non vincerà il trofeo quest'anno sarà principalmente perché mai viene dato due anni di fila allo stesso coach. Brad Stevens a Boston e Dwane Casey a Toronto sono legittimi candidati. Qui però vorrei aggiornare la storia di allenatore di Mike D'Antoni.

All'inizio degli anni '90 quando passò dal campo alla panchina di Milano, il gioco era fisico, tutti utilizzavano due lunghi, l’ala forte era praticamente un centro un po’ più basso e magari un po’ più pericoloso al tiro. Valeva in tutto il mondo. Nel 1999, quindi alla fine del decennio, San Antonio vinse il suo primo titolo NBA con Tim Duncan da ala forte e David Robinson da centro. I Knicks che giocarono la finale, al completo avevano Patrick Ewing da centro e Kurt Thomas o Marcus Camby come ali grandi. In Italia la Virtus di Messina campione d'Europa nel 1998 aveva Savic e Nesterovic e Frosini; nel 2001 vinse tutto con Frosini da 4 e Griffith da 5 più Smodis. Era un altro basket.

A Milano, D’Antoni aveva guidato in campo squadre con Meneghin e Gianelli; Meneghin e Carroll; Meneghin e McAdoo; Meneghin, McAdoo e Brown insieme addirittura. Ma  D’Antoni da allenatore scelse Jay Vincent come ala forte: per quei tempi era una rivoluzione perché Vincent era un 4 perimetrale, per quei tempi quasi un 3. La nascita dello “Smallball” che oggi caratterizza la NBA risale a quegli anni. D'Antoni l'ha ideato o applicato in Italia ed esportato (dopo Milano e la breve esperienza di Denver lo fece anche a Treviso con Riccardo Pittis da 4). Gli statistici hanno dimostrato con i numeri che aveva sempre avuto ragione. A distanza di oltre venti anni D'Antoni resta il miglior interprete di questo stile di gioco.

In quattro anni, D’Antoni portò l’Olimpia ad una finale scudetto, una finale di Coppa Italia, alla vittoria in Coppa Korac contro Roma e ad una Final Four, nel 1992. A Istanbul, l’Olimpia arrivò a giocarsi la semifinale contro la squadra che poi avrebbe vinto il titolo, il Partizan Belgrado: i serbi non erano i favoriti ma con il senno di poi avrebbero dovuto esserlo. Erano guidati da Zeljko Obradovic, il coach più vincente d’Europa (dopo), supportato come “senior assistant” da Aza Nikolic. In campo avevano Zeljko Rebraca, Sasha Djordjevic (che a fine anno sarebbe venuto a Milano) e Predrag Danilovic (che sarebbe andato a Bologna).

L’Olimpia aveva probabilmente compiuto un errore puntando su Darryl Dawkins e Johnny Rogers così appesantendo la squadra, spostando gli equilibri vicino a canestro e di fatto rinnegando i principi chiave del gioco di D’Antoni. Successe a Milano e poi sarebbe successo di nuovo a Phoenix quando presero Shaquille O'Neal rovinando gli equilibri degli anni precedenti.

D'Antoni con il suo stile vinse in Italia e in Europa prima a Milano e poi a Treviso dove Ricky Pittis si trasformò in un 4 a tempo pieno. Nella sua seconda esperienza NBA a Phoenix decise di andare fino in fondo con le sue idee. E avrebbe cambiato la storia.

Nel primo anno di D'Antoni a Phoenix, i Suns vinsero 62 partite ma furono eliminati nei playoffs dai San Antonio Spurs 4-1 giocando con mezzo Joe Johnson che si era rotto un osso sopra l'occhio. Gli Spurs avrebbero eliminato Phoenix tre volte in quattro stagioni, in due di queste tre volte avrebbero poi vinto il titolo. Nel 2006, i Suns di D’Antoni furono invece battuti da Dallas 4-2 (i Mavs andarono in finale suicidandosi contro Miami: uno dei rari casi in cui la squadra migliore non ha vinto la finale). 

La prima Phoenix di D'Antoni aveva Steve Nash nei panni dell'attuale James Harden di Houston (fu due volte MVP), Joe Johnson e Quentin Richardson come esterni. Shawn Marion da ala forte. Amar'e Stoudemire da centro. Segnavano 115.01 punti ogni 100 possessi nel 2004/05. Quei Suns erano offensivamente al livello dei Warriors di Curry, Durant e Thompson. I punti ogni 100 possessi furono 112.27 nel 2005/06 quando Joe Johnson venne ceduto ad Atlanta e Quentin Richardson a New York, gli esterni del quintetto erano Raja Bell e Jimmy Jackson ma soprattutto i Suns non ebbero Stoudemire per 79 partite su 82. In quintetto avevano Kurt Thomas o Boris Diaw. In quel momento sembrava che il gioco funzionasse a patto che ci fosse Nash ovvero un playmaker creativo di estremo talento. James Harden in fondo è l'evoluzione della specie dal punto di vista atletico e della mentalità.

Rientrato Stoudemire nel 2006/07 schizzarono di nuovo a 114.68 punti ogni 100 possessi. Avevano la stessa squadra dell'anno precedente. Vinsero 61 partite. Probabilmente avrebbero vinto il titolo senza il giallo delle sospensioni in gara 5 nella serie con San Antonio (un fallo criminale di Robert Horry su Steve Nash in gara 4 determinò una mezza rissa con ingresso illegale in campo di Amar'é Stoudemire e Boris Diaw: la sospensione di entrambi cosò la sconfitta in gara 5 obbligando i Suns a dovers salvare la stagione in trasferta in gara 6 ma non ci riuscirono). L'errore lo fecero dopo, scambiando per O'Neal. Come era stato un errore a Milano prendere Darryl Dawkins.

L'esperimento O'Neal e poi quanto è accaduto soprattutto ai Lakers con Dwight Howard più che ai Knicks, e alla luce della stagione dei Rockets, dimostra chiaramente che D'Antoni come allenatore ha un'identità precisa e immutabile. Come Phil Jackson e il triangolo o al college Jim Boeheim e la zona 2-3, Bobby Knight e il suo motion offense, Dean Smith e il T-Game eccetera. Chiedere a D'Antoni di allenare una squadra che non ne assecondi le idee è autolesionismo. Ha funzionato a New York ad esempio prima di Carmelo Anthony e nell'interregno della Linsanity. Ma supportato nelle sue idee non solo queste funzionano ma escono esaltate dagli interpreti.

Gli Houston Rockets hanno avuto il buon senso di scegliere D'Antoni per estremizzare le loro idee. I Knicks lo scelsero perché era un coach di moda e pensavano potesse aiutarli a convincere LeBron. I Lakers perché avevano Steve Nash e una parte del club non voleva riprendersi in casa Phil Jackson. Ma D'Antoni quando è stato chiamato dai Rockets era un allenatore ai margini del mercato. Veniva da una brutta esperienza ai Lakers, aveva 65 anni e il suo ultimo lavoro era stato quello di assistente allenatore dei Sixers, praticamente un ruolo da saggio esperto. O da consulente dei due Colangelo. La differenza è che i Rockets volevano lui, le sue idee e il suo gioco.

Houston aveva avuto a sua volta una stagione pessima. Mentre la scuola di pensiero convenzionale voleva che una squadra offensiva scegliesse un allenatore difensivo, i Rockets hanno puntato su un'identità forte. Non volevano una via di mezzo, un compromesso. Volevano abbracciare totalmente la filosofia del club prendendo il miglior allenatore per condividerla e implementarla. Poi sono andati sul mercato e hanno agito di conseguenza firmando due tiratori di elite come Eric Gordon e Ryan Anderson aggiungendoli a Trevor Ariza (e successivamente hanno rincarato la dose con Lou Williams poi sacrificato per prendere Chris Paul).

In questo momento Houston è ai limiti dell'indifendibile perché riesce a mettere pressione sulla difesa avversaria su una fetta di campo troppo ampia. I Rockets sono devastanti attorno al ferro con le penetrazioni di James Harden e il pick and roll che manda a canestro normalmente Clint Capela (o Nene'). Ma per riempire l'area contro soluzioni chiaramente ad alta percentuale (Harden ha il 67.9 % al ferro, Capela il 72.6 %) bisogna scoprirsi sul tiro da tre quando ci sono non solo tre dei migliori specialisti della Lega ma due di essi eseguono il tiro anche un metro o un metro e mezzo dietro l'arco. Eric Gordon e Ryan Anderson estendono la difesa più di quanto sia mai stato fatto (ai tre specialisti vanno aggiunti i buoni tiratori da tre ovvero Paul, Harden, Tucker e Mbah-a-Moute). I Rockets hanno circa 200 triple a segno più della seconda che è Brooklyn (Golden State è quinta).

I teorici problemi di coesistenza tra Paul e Harden sono scomparsi subito. Con loro due (e Capela) in campo, i Rockets hanno perso solo una volta. D'Antoni li usa spesso alternativamente così da avere sempre in campo un giocatore creativo e decisivo, per quanto i due siano diversi (Harden è uno slasher, Paul un tiratore dalla media semplificando ovviamente). Il risultato dell'aggiunta di Paul è stato devastante: con lui i Rockets sono diventati la miglior squadra della Lega nelle situazioni di isolamento. L'evoluzione è questa: invece che prendere il primo tiro (I famosi "Seven seconds or less" di Phoenix che erano una definizione mediatica) cercano il primo buon tiro sapendo che in ultima analisi Harden e/o Paul li tireranno fuori dai guai. 

Ma ovviamente c'è stata anche un'evoluzione difensiva. Paul è storicamente uno dei migliori point-man difensivi della Lega e nelle operazioni minori di mercato il general manager Daryl Morey è riuscito a portare a casa eccellenti difensori come Tucker e Mbah-a-Moute che fossero al tempo stesso pericolosi tiratori con i piedi per terra, i famosi "3 and D". Lo scorso anno avevano Corey Brewer come specialista difensivo ma in attacco era impresentabile. Adesso hanno elementi che possono ferire. Oggi i Rockets hanno la decima difesa della Lega con 104.5 punti subiti ogni 100 possessi. Golden State è sesta con 103.4.

Resta il fatto che questa è un’era in cui puoi giocare a livelli stellari e non vincere comunque: per quanto Chris Paul abbia aumentato lo “star power” di Houston, Golden State è sempre di un altro livello. I Warriors hanno però giocato tre finali consecutive e la storia insegna che stagioni consecutive tanto lunghe lasciano sempre un segno. Poi Chris Paul non ha mai giocato una finale di conference e James Harden lo scorso anno ha fallito quando non doveva. A parte la debacle di gara 6 contro gli Spurs, nei playoffs aveva aumentato il numero di tiri da tre, sempre un brutto segnale, abbassando le percentuali fino a livelli poco raccomandabili (27.8 %, la peggiore in carriera). Per il momento però Houston è soprattutto bella da vedere, completa, efficace e in possesso di una fiducia senza precedenti.

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