sabato 28 aprile 2018

Superbasket, Michael Jordan, Planinic e altro: l'intervista di Giancarlo Migliola

Il mio amico e collega, ma soprattutto ex compagno di squadra a Superbasket, Giancarlo Migliola su infobetting.com ha dedicato uno dei suoi articoli, tutti scritti magistralmente e con quella sottile ironia e sarcasmo che non avrò mai, a... me. Ecco che cosa ci siamo detti.
Giornalista per tanti anni a Superbasket e ora Responsabile Comunicazione dell’EA7 Milano. Cambia tutto. Quanto è stato difficile il salto?
“Inizialmente, e un po’ anche ora, trovavo surreale avere scoop o informazioni, che avrebbero spiegato facilmente quanto stava accadendo dentro e fuori del campo, ma non poterle usare per la natura ovviamente “partigiana” del mio lavoro attuale e che peraltro non tutti comprendono. Lavorare in un club di questo livello è stata un’esperienza incredibile: ho imparato tantissimo dai dirigenti con cui ho lavorato, i giocatori e il loro volto umano di ragazzi, gli allenatori e i colleghi conosciuti in giro per il mondo. Quando finirà questa esperienza, se dovessi tornare a fare il giornalista in senso tradizionale, non dimenticherò mai la lezione più importante che ho appreso: i media raccontano e spiegano una realtà parallela, non lontana ma neanche identica, alla verità. Ci sono troppe cose che non possono sapere, troppi dettagli. Una volta un presidente di una società avversaria dichiarò che criticare l’esonero del suo allenatore era sbagliato, perché solo in pochi sapevano quanto stesse davvero accadendo giorno dopo giorno in quel club. Da giornalista avrei risposto che si commenta quello che si vede, si percepisce e viene comunicato, ma ammetto che non aveva torto, nella sostanza”.
Gli anni di Superbasket. Direttori diversi, colleghi diversi, una pallacanestro diversa da raccontare. Cosa ti porti dentro?
“Ovviamente per Aldo Giordani avevo un affetto da figlio, come molti di coloro che sono cresciuti sotto di lui. Era magnetico nel senso che pur riconoscendogli dei difetti non riuscivi che a seguirlo ciecamente e non tolleravi che qualcuno potesse metterlo in discussione. Molti di noi ancora oggi dividono il mondo dei giornalisti di basket in chi ha lavorato con Giordani e chi non l’ha fatto. Ma lui è stato il più grande di tutti per distacco. Enrico Campana era come Bobby Knight: pressione altissima, esigentissimo, spietato, cinque anni durati venti ma dopo eri pronto a tutto. Roberto Guglielmi, che tutti dimenticano ma è stato il direttore di American Superbasket, mi ha insegnato a vedere le cose da un punto di vista editoriale, direi manageriale anche se di certo non sono mai stato un manager. Franco Montorro se n’è andato sbattendo la porta ed equivocando diverse cose. Non voglio essere diplomatico per forza ma per sette anni siamo andati abbastanza d’accordo. Io questo non voglio dimenticarlo. Mi porto dietro un’esperienza diversa da quella che accompagna chi si avvicina al giornalismo ora. Era più difficile cominciare, oggi può farlo chiunque, ma se entravi voleva dire che avevi dei numeri e se avevi dei numeri potevi esibirli”.
Giornalismo: una passione/mestiere che nasce come e quando nel tuo caso?
La passione per lo sport, scoprire cosa accade sui campi e perché credo sia nata con me. Ho un ricordo distinto di me a neppure sei anni che guardo alla tv la finale dei 200 metri a Monaco ovviamente in bianco e nero. Non capivo bene per cosa corressero e quanto fosse importante ma avevo capito che dovevo tifare per Pietro Mennea. Sarà per quello ma lo considero l’atleta per il quale ho delirato, sofferto e gioito di più in vita mia. L’oro di Mosca è stato indescrivibile. E’ sempre stato il mio campione più affascinante: la determinazione, la disciplina, quel macerarsi dentro. Se potessi raccontare un campione per come è davvero vorrei raccontare Mennea. La passione per il basket è venuta poco dopo e alla fine tutto ha finito per convergere in quello che ho fatto, bene o male, con un impegno e una passione totali. Poi tutto è diventato realtà perché un giorno Aldo Giordani mi consigliò di mandargli i famosi pallini che la Gazzetta in questi giorni ha fatto tornare di attualità. Credo di avergli inondato la scrivania e non mi sono più fermato. Il primo l’ho scritto a 18 anni”.
L’evento che hai seguito dal vivo e che non dimenticherai mai…
“Michael Jordan fermo, immobile, il polso spezzato, il canestro del titolo del 1998, a Salt Lake City. Indimenticabile. Utah aveva un altro tentativo ma lì Jordan diffuse un senso di invincibilità di fronte al quale una squadra irriducibile, bellissima, infine si arrese dopo due anni di battaglie”.
Il giocatore che ti ha emozionato intervistare
Sinceramente il personaggio che mi ha colpito di più è stato David Stern: lucidissimo e preparatissimo per l’intervista. Sapeva cosa avresti chiesto e come dirtelo e chi eri e cosa si stava dicendo in quei giorni in Italia. Ma ci sono stati tanti episodi curiosi: ricordo Kobe Bryant all’All-Star Game del 1998, a New York. Un giornalista giapponese gli squaderna davanti la cartina dell’Italia chiedendogli di indicare dove abbia vissuto. E lui faticava a trovare Rieti. Capisce che sono italiano – eravamo un gruppo accalcato attorno a lui – e mi chiede aiuto in italiano così solo io potevo comprendere. Gli sussurro le indicazioni e lui trova Rieti, finalmente! Un’altra volta a San Antonio ero in fila da Starbucks e in cima alla cassa c’era Bill Russell a ordinare un caffè. Come sai, ti chiedono il nome da scrivere sulla tazza di carta. Ma anche a Bill Russell? La risposta è sì. Sentire il più grande vincente della storia indicare ad un barista ispanico di chiamarsi Bill, è stato surreale. Ma quando incontrai Julius Erving da ragazzino, avrò avuto 21 anni, a Milano, non riusciì a parlare. Ero pietrificato. Fu lui a darmi un buffetto…”
La partita più assurda da raccontare.
Nel basket non esistono partite assurde perché è accaduto di tutto, molte volte. Ma devo aprire una ferita ancora recente dei miei anni di Milano: la sconfitta con l’Efes nel 2014 con il canestro da venticinque metri di Planinic. Non ho mai visto una serie di piccoli episodi fortuiti che fecero diventare decisivo quel tiro. La cosa più incredibile è che Planinic lanciò la palla al buio, voltato, con almeno un paio di secondi di anticipo e a metà campo davanti a me Vasiliadis lo mandò a quel paese. Un attimo prima che la palla picchiasse sul tabellone ed entrasse immotivatamente”.
Se non avessi fatto il giornalista…
“Sarei stato nei guai. Avrei voluto allenare ma non ho mai provato a farlo perché appunto ho cominciato molto presto, prima di poter pensare drammaticamente ad un’alternativa”.
Quanto conta il jogging nella tua giornata e nella tua vita?
“Ti ringrazio per la domanda: è la prima volta che rispondo come se fossi un atleta… Ho letto che mi hai definito un semiprofessionista. Non ho mai ricevuto una definizione che mi abbia entusiasmato di più e più centrata. Per molti anni il mio approccio è stato professionale per impegno e sacrifici e dilettantistico ovviamente per tutto il resto. So che molti mi vedono maniacale nella disciplina con cui corro, in realtà è una battaglia quotidiana contro la tentazione di non farlo ma non mi sento a mio agio quando sono a mio agio. Da quando lavoro a Milano mi è più complicato seguire le tabelle soprattutto in trasferta ma vado ancora abbastanza forte da potermi definire un runner e non un jogger. Chi vuole ora può ridere”.
Livorno manca da anni dalla grande pallacanestro. Un buco nel cuore?
“Il rimpianto è non aver capito, io come tutti, negli anni delle due squadre di serie A che quei tempi sarebbero inevitabilmente finiti e avremmo dovuto assaporarli di più e non darli per scontati. Il buco nel cuore è nella consapevolezza che a Livorno abbiamo sempre avuto tantissimo talento cestistico e una presenza a livelli accettabili per le dimensioni della città in ogni momento della storia, dal dopoguerra al decennio scorso. Non capisco, e mi fa male, perché oggi Livorno nel basket sia così nettamente al di sotto delle sue possibilità come presenza al vertice e non tiri fuori giocatori come ha sempre fatto. La crisi economica è una motivazione relativa. Vorrei che qualcuno spiegasse meglio”.
E tu, interista vero ma silente, come la vivi ora che lavori a Milano?
Mi piace pensare all’Olimpia come all’istituzione sportiva milanese che unisce interisti e milanisti sotto la stessa effige. Come interista dopo il triplete ho vissuto una sorta di sindrome da appagamento. Succede quando vedi una cosa che non avresti mai pensato di vedere dopo tante beffe. Eppure ancora oggi baratterei tutti gli scudetti di Mourinho e Mancini con quello del 5 maggio, anno in cui viaggiavamo in testa alla classifica a inizio stagione con Kallon e Ventola come punte. Ora mi piacerebbe che l’Inter vincesse uno scudetto inatteso, da outsider, compiendo un’impresa inaspettata e fosse allenata da un’interista vero. Mi piacciono queste cose sentimentali”.
Io coltivo una dipendenza da New York. Un giorno con grande orgoglio ti ho scritto che c’ero stato 8 volte: tu mi ha risposto con le tue, di volte…
“Sono stato negli Stati Uniti, se non ho perso il conto, 34 volte ma quasi sempre in numerose città ogni volta. Non ho l’esatta percezione di quante di queste volte abbiano coinvolto New York, direi quasi tutte anche più volte all’interno dello stesso viaggio. Credo che anche questa passione sia nata con me. Mi hanno sempre affascinato gli Stati Uniti, fin da bambino, e la passione per il basket ha accentuato questa “ossessione”. A New York mi sento al tempo stesso a casa e in ogni luogo, quello in cui senti che stanno accadendo mille cose contemporaneamente. Poi un giorno ho realizzato che tutti dicono di andare a New York ma in effetti vanno a Manhattan. E’ stato il giorno in cui ho cominciato a cercare di scoprire nuove zone. Il viaggio più lungo è stato a Coney Island; al Bronx ho visto le partite del Rucker. Ero l’unico bianco insieme ad uno degli arbitri. Potrei andare avanti per ore raccontando New York…”

Nessun commento: