John Starks veniva dall’Oklahoma,
cambiò quattro college, fece il magazziniere in un supermercato finché non si
convinse che aveva talento e non doveva sprecarlo tra scatoloni, scaffali e
lattine. Riuscì ad andare a Oklahoma State, vi giocò l’ultimo anno di college,
poi ebbe una chance NBA a Golden State ma lo tagliarono. Si rifugiò nella CBA e
infine arrivò la chiamata di New York, l’1 ottobre 1990. Il giorno in cui il
roster doveva essere ridotto a 12 uomini, capì che il suo destino era segnato.
Così decise di andar fuori ma a modo suo. Combattendo. In un’entrata trovò il
corpaccione di Ewing a sbarrargli la strada. Pensò di schiacciargli in testa.
In realtà cadde rovinosamente, si infortunò e i Knicks non poterono tagliarlo
per regolamento. Lo ricollocarono in lista infortunati. Guadagnò tempo.
Quando arrivò Riley,
Starks era ancora lì, in fondo alla panchina di New York. Per un anno fece il
cambio di Gerald Wilkins poi Riley lasciò andare via Wilkins e chiamò da
Dallas, Rolando Blackman, “Ro”, un panamense cresciuto a Coney Island,
grandissimo tiratore in parabola discendente che non conquistò mai il posto il
quintetto ipotizzato e di fatto non giocò neppure nella serie con Houston,
perché Starks ormai era pronto.
Nel 1993, vinse due partite
di playoffs contro Jordan. Quattro bombe consecutive nell’ultimo quarto di una,
la schiacciata risolutiva nei secondi finali dell’altra. Nel 1994, conquistò
addirittura un posto all’All-Star Game. Riley aveva preso uno scarto e l’aveva
trasformato in una stella. Ma Starks – caratteristica che l’avrebbe
perseguitato anche negli anni successivi – era un discontinuo, uno che poteva
farti vincere e perdere qualsiasi partita, debole nell’autocontrollo, nella
gestione dei nervi. Una reazione fuori posto, una rissa, con lui era tutto
sempre possibile...
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