martedì 6 settembre 2016

Shaq, LeBron, Wade chi è stato il più importante a Miami?


Pat Riley diventò allenatore e presidente dei Miami Heat nel 1995 dopo quattro anni ai Knicks. Fu un colpo clamoroso e per convincerlo Mickey Arison, il proprietario del club, gli cedette addirittura una quota della franchigia.
Da allora Riley ha costruito in 20 anni a South Beach tre diverse squadre da titolo. La prima fu costruita attorno a Tim Hardaway e Alonzo Mourning ma non andò oltre la finale di conference del 1997. Erano gli anni dei Bulls di Michael Jordan e superarli era quasi impossibile. Gli Heat subirono due colpi da ko tra l'altro. Convinsero Juwan Howard, una star emergente a giocare per loro, ma la Lega annullò l'operazione per circonvenzione del salary cap. Riley era stato troppo creativo nel tentativo di pagare Howard senza pesare sul cap. Il secondo colpo basso fu la malattia ai reni di Mourning. Dovette ritirarsi, poi tornò e venne scambiato ai Nets durante una sorta di ricostruzione della squadra. Infine Mourning rientrò alla base a fine carriera per vincere il titolo del 2006 da cambio di Shaquille O'Neal.

lunedì 5 settembre 2016

E se i Lakers avessero davvero scambiato Kobe per Grant Hill?


Phil Jackson ha svelato in una recente intervista-diario all'unico giornalista di cui si fidi, Charley Rosen, che nel corso della stagione 1999-2000 "per qualche minuto anzi secondo" ha valutato la possibilità di cedere Kobe Bryant ai Pistons in cambio di Grant Hill. Pensate a come sarebbe cambiata la storia della NBA se l'affare fosse stato consumato. Oggi può sembrare una follia ma all'epoca non lo sarebbe stata per nulla. Bryant era un 21enne emergente, fortissimo e con grandi margini di miglioramento ma Hill era a sua volta una star affermata, nella miglior stagione della carriera.

sabato 3 settembre 2016

Ora Dennis Schroder vale 70 milioni di dollari




Alla fine della scorsa stagione, Dennis Schroder (non Schroeder ok...) aveva espresso il desiderio di diventare il playmaker titolare degli Atlanta Hawks. Nel momento stesso in cui l’ha fatto ha creato un inevitabile dualismo – che stava già montando - con Jeff Teague. Il problema è stata risolto a monte, cedendo Teague ad Indiana. Adesso Schroeder può confermare i propri progressi e gestire la squadra full-time. E’ una delle grandi novità degli Atlanta Hawks della nuova stagione, a parte ovviamente il ritorno a casa di Dwight Howard.

mercoledì 31 agosto 2016

Perché i Nets fanno sembrare Danny Ainge simile a Auerbach




I Brooklyn Nets rappresentano il caso più evidente di squadra NBA che ad un certo punto della propria storia ha “venduto” il proprio futuro nel tentativo di vincere subito. L’ha fatto per diversi motivi: le ambizioni personali di Mikhail Prokhorov, il magnate russo che aveva bisogno di essere subito credibile come proprietario di un club NBA, ma soprattutto lo sbarco a Brooklyn quindi la necessità di presentare un prodotto che convincesse la popolazione locale a restare a casa per vedere la NBA senza dirigersi a Manhattan per tifare o contestare i Knicks.
La mossa non ha avuto successo anche se ha fatto parlare tantissimo, di Prokhorov e dei Nets quando hanno acquistato Deron Williams da Utah, firmato Kevin Garnett, Joe Johnson, Paul Pierce. Hanno pagato una fortuna in luxury tax, hanno fatto rumore, hanno vinto molto meno di quanto sperassero e appunto hanno venduto il futuro. Oggi i Nets hanno una squadra che è in minima parte composta da veterani affidabili, che assicurano un minimo di competitività come Brook Lopez, Luis Scola, Jeremy Lin, anche Greivis Vasquez, e poi hanno un manipolo di giovani non necessariamente fortissimi come Rondae Hollis-Jefferson o Caris LeVert di cui si dicono cose spettacolari ma nella misura in cui le condizioni fisiche lo sorreggono.

Alcindor-Jabbar, il più grande mai prodotto da New York


"Stai giocando come un negro". Jack Donohue, coach della Power Memorial Academy a Manhattan, non era un razzista o quantomeno non ci sono motivi per pensare che lo fosse. Ma la sua squadra, che sarebbe stata votata anni dopo come la migliore di sempre a livello liceale, aveva pochi ragazzi di colore. Il migliore di tutti si chiamava Lewis Alcindor e veniva dai projects di Dyckman Street, nella sezione di Manhattan nota come Inwood, vicino ad Harlem. Era un predestinato. Altissimo e coordinato. Un atleta. Alla St.Jude, la sua scuola elementare, era stato immarcabile e quando arrivò a Power Memorial, adesso tristemente chiusa, era già una piccola celebrità. Donohue usò quella frase per motivarlo dopo un primo tempo opaco. Ma aveva superato il limite. Nella testa del giovane Alcindor negli anni '60 quella era una frase che non poteva essere tollerata.

lunedì 29 agosto 2016

La leggenda di Fly Williams




Fly veniva da Brownsville, sezione tra le più povere di Brooklyn, dove è cresciuto anche Mike Tyson. Ma lo sport per antonomasia a Brownsville è il basket: Walter Berry è nato qui anche se poi si è trasferito nel Bronx, così Lloyd Daniels, Albert King (il miglior quattordicenne della storia dissero, poi diventò “solo” un buonissimo giocatore NBA ai Nets dopo aver giocato a Maryland con uno scudetto conquistato anche a Milano), il fratello Bernard, che con la maglia dei Knicks riuscì a segnare 50 punti in due gare consecutive, Vinnie Johnson, sesto uomo dei Detroit Pistons quando vinsero due titoli NBA consecutivi. E appunto Fly Williams che emerse nella prima metà degli anni ’70 quando segnò 63 punti in un All-Star Game in cui la squadra avversaria aveva addirittura Moses Malone.

venerdì 26 agosto 2016

Lamar Odom all'inferno e ritorno... tante volte




Lamar Odom rimase in quella posizione per tre ore.  Un uomo solo con in braccio un bambino di sei mesi e mezzo. Si chiama morte bianca. Jayden Odom passò dal sonno alla morte senza avvertire nessuno, lasciando il padre disperato a gestire un altro dei tanti drammi della sua vita. "La vita di Lamar è stata sempre così: una parte ricca di successi, fortuna, gioie; e l'altra metà dominata dai drammi più dolorosi", disse Jerry DeGregorio che Odom ha sempre definito il "mio padre bianco".

giovedì 25 agosto 2016

Houston: un grande esperimento chiamato Clint Capela




La notizia più importante dell’estate degli Houston Rockets è stata l’estensione contrattuale di James Harden. Non ha avuto la stessa eco di quella di Russell Westbrook a Oklahoma City ma il concetto è lo stesso. Harden sarebbe andato a scadenza un anno dopo Westbrook quindi i Rockets avevano meno urgenza di agire e inoltre non si avvertiva lo stesso tipo di rischio. Ma il messaggio è stato forte: Harden è al centro del progetto, il club crede in Harden e Harden nei Rockets. In un’estate in cui non sono stranamente riusciti neppure a entrare tra le cinque finaliste del Kevin Durant Derby, l’estensione di Harden è stato un premio di consolazione non indifferente.
Il mercato dei Rockets è stato soprattutto funzionale allo stile di gioco della squadra, enfatizzato dall’arrivo di Mike D’Antoni. La partenza di Dwight Howard era da ritenersi scontata: Howard non ha veramente legato con Houston, soffriva la leadership di Harden come a Los Angeles soffriva quella di Kobe Bryant e Pau Gasol e infine l’arrivo di D’Antoni, considerato il passato comune dei due e le idee del coach “milanese”, ha sancito un divorzio che non è dispiaciuto nemmeno ai Rockets. Altrimenti non si spiegherebbero le loro mosse. Tutte hanno spinto “contro” Dwight Howard.
Ma una squadra senza Howard è anche una squadra migliore? Questo è un concetto eterno nel basket perché migliorare sottraendo è sempre auspicabile ma difficile. E qui entra in gioco Clint Capela, il centro titolare, terzo anno di NBA, 22 anni, dei Rockets.

L'ultima notte di Malik Sealy




C’era stata una festa di compleanno del suo giovane compagno di squadra ai Minnesota Timberwolves. Correva l’anno 2000. Kevin Garnett aveva 24 anni ed era un amico. Prese la sua auto per tornare a casa, imboccò una highway quando in direzione opposta contromano, si vide piombare addosso un auto a tutta velocità. Al volante un uomo ubriaco. Malik Sealy morì così, a 30 anni, nel cuore di una buona carriera NBA.

mercoledì 24 agosto 2016

La grande storia di Bernard King (e dell'Ernie and Bernie Show)



I King vivevano a Brooklyn in un appartamento dei Whitman Housing Projects, quindici palazzoni, uno identico all’altro, oltre 1500 abitazioni. Il capofamiglia era il custode di uno di questi palazzi: puliva, riparava, accudiva, si spezzava la schiena e guadagnava pochissimo, non abbastanza per mantenere una moglie e sei figli. Uno di questi era Bernard King e sarebbe diventato il Re di New York City. Oggi il campo da basket del “project” si chiama “King Court” in suo onore.

martedì 23 agosto 2016

Analisi (realista) dell'estate dei New York Knicks


A conti fatti i Knicks hanno rivoluzionato una squadra che a metà stagione era sembrata promettente salvo incartarsi in modo inquietante e finire molto male. Hanno cambiato perché non potevano non farlo, perché la scelta sorprendente di prendere un allenatore che non fa parte della famiglia di Phil Jackson ha imposto un cambio di strategia e infine perché hanno avuto la possibilità di farlo.
Singolarmente le mosse principali sono tutte condivisibili
. Derrick Rose è un sicuro upgrade rispetto a José Calderon in almeno tre aree: penetrare la difesa schierata, correre in contropiede e creare opportunità. Ovviamente Rose non è quello che fu il più giovane MVP della storia nel 2011 ma le 66 gare giocate lo scorso anno sono il suo massimo dopo il primo catastrofico infortunio che ne ha frenato la carriera. Qui parlo solo della nuova squadra dei Knicks perché da un punto di vista strategico la mossa Rose non ha controindicazioni. Lasciandolo libero tra un anno assieme a Brandon Jennings, New York aprirebbe 24 milioni di spazio salariale anche se Russell Westbrook ha almeno momentaneamente sposato Oklahoma City così eliminandosi dal mercato. Non una bella notizia per i Knicks.

lunedì 22 agosto 2016

New York Basketball Stories 2.0: perché la nuova versione


Quando nell’ottobre 2015 tornai a New York con l'Olimpia Milano sentii Jamel McLean sospirare. "Non importa quante volte sei stato a New York perché è sempre come se fosse la prima". McLean è nato a Brooklyn. New York è davvero così. Una sorpresa continua. Cammini e senti parlare ogni lingua, incontri ogni tipo di persona e la metropolitana è quasi l'anello che congiunge uomini e donne dei più disparati strati sociali. Non esiste un luogo più di Times Square in cui un venerdì notte o un sabato sera puoi sentirti così al centro del mondo o nel cuore di tutto quello che succede. Cambiano i palazzi, chiudono negozi e ne aprono altri, ristoranti storici lasciano il posto a ristoranti nuovi. Catene di fast food e slow food. Librerie che vanno e che vengono. Ogni visita a New York scopri un mondo diverso. Immaginate nel basket: lo sport che distingue New York per la sua natura urbana, le sue origini di strada, la sua matrice afroamericana o anche solo perché i Knicks giocano al Madison Square Garden e quindi sono la squadra del mondo. La prima versione di questo libro era stato un atto di amore nei confronti della città. Era una New York ferita dall'attentato alle Torri Gemelle. Pochi mesi dopo, camminando una sera per Manhattan, ero stato avvolto da un groppo alla gola. Le strade erano deserte. La città triste. Non era una sera di punta, forse era addirittura un lunedì sera, ma non avevo mai visto New York così afflitta. Così abbattuta. Mi apparve quasi rassegnata e ovviamente non lo era. Certo guardavi sud e non vedevi più le Twin Towers, non belle ma imponenti. Troneggianti. Erano un punto di riferimento. Quel buco, in parte riempito, fa ancora male.

sabato 20 agosto 2016

NY Basketball Stories 2.0: gli scandali del 1951




Il Manhattan College è situato su una collina che sovrasta il Bronx.I Fu qui che nel gennaio del 1951 Junius Kellogg, allora 23 enne, reduce della Seconda Guerra Mondiale, un centro di 2.03, afroamericano, il primo giocatore nero mai reclutato da Manhattan, si presentò nell’ufficio di Coach Ken Norton per comunicargli che un suo ex compagno di squadra, già laureato, Hank Poppe, gli aveva offerto soldi per addomesticare lo scarto della successiva partita. Quella che al Garden, Manhattan avrebbe giocato contro DePaul.

venerdì 19 agosto 2016

La straordinaria parabola di Manu Ginobili


Il ritiro di Manu Ginobili dalla nazionale argentina era ovviamente scontato. Ginobili ha 39 anni e una lunghissima carriera alle spalle con stagioni NBA estremamente impegnative con cinque viaggi in Finale e per ognuno di essi un centinaio di partite annuali. L'anagrafe non fa sconti. In questi giorni abbiamo avuto un saggio dei tributi che riceverà giustamente nel giorno del ritiro vero quando probabilmente la sua maglia numero 20 verrà ritirata dai San Antonio Spurs.
Ci sono diversi flash della carriera di Ginobili che meritano qualche riflessione. Arrivò alla Virtus Bologna come ripiego nel 2000. Ettore Messina voleva Andrea Meneghin, più esperto e testato. Meneghin preferì la Fortitudo e Ginobili fu il premio di consolazione anche se aveva già fatto molto bene a Reggio Calabria. In quella stagione Ginobili avrebbe dovuto fare il cambio di Sasha Danilovic o comunque prenderne il posto gradualmente. Ma al ritorno dalle Olimpiadi di Sydney, Danilovic decise di ritirarsi a soli 30 anni. Questo spalancò le porte a Ginobili. Non dico che se ci fosse stato Danilovic entro fine stagione non sarebbe diventato comunque il Ginobili dominatore della stagione ma magari il percorso sarebbe stato più tortuoso. Danilovic era esaurito fisicamente ma era sempre Danilovic e a Bologna persino oggi molti pensano sia stato più grande di Manu. Almeno a Bologna.

NY Basketball Stories 2.0: St.John's e Chris Mullin




Mullin era un “brooklyniano” convinto. Nel 1984, prima del suo ultimo anno a St.John’s, superò le spietate selezioni di Bobby Knight (che tagliò Charles Barkley, Karl Malone e John Stockton tra gli altri) e si conquistò un posto nella Nazionale USA ai Giochi di Los Angeles 1984. La famiglia affittò un appartamento a Malibu per tutta la durata delle Olimpiadi e non si perse un secondo di Chris. Lui partì in quintetto solo contro il Canada del suo amico Wennington e segnò 20 punti. 
Ma alla fine del torneo vinto dalla squadra americana era il secondo realizzatore, il terzo passatore, il secondo rimbalzista di una formazione in cui la stella delle stelle si chiamava Michael Jordan.

mercoledì 17 agosto 2016

Dirk Nowitzki, il miglior giocatore europeo della storia NBA?




In estate Dirk Nowitzki ha firmato un nuovo biennale con i Dallas Mavericks per 50 milioni di dollari. Nowitzki ha 38 anni e gioca nella NBA dal 1998/99, anno del lockout che ridusse la stagione a 50 partite. Pau Gasol ha firmato un biennale con San Antonio. Ha vinto due titoli con i Lakers ma proverà a vincerne un altro agli Spurs prendendo il posto di Tim Duncan. E giocando con Tony Parker da playmaker. Quanto a Nowitzki la prima parte della carriera l'ha spesa accanto a Steve Nash, un canadese. Finora ho parlato solo di giocatori non americani. Sono loro i migliori giocatori NBA non americani della storia?
Per rispondere a questa domanda occorre definire il concetto di giocatore non americano. Non c'è dubbio che rientrino in questa categoria Nowitzki e Gasol ma cosa dire di Tony Parker? O Steve Nash? Se consideriamo americani i puri prodotti del sistema statunitense - giocatori nati negli USA che hanno imparato nei playground, hanno giocato i Tornei AAU, frequentato le high school e generalmente un college - persino Kobe Bryant potrebbe non essere del tutto americano. Ma nessuno si sogna di non considerarlo tale.

martedì 16 agosto 2016

L'incredibile record di Oscar: cinque Olimpiadi in doppia cifra


Neanche a Rio de Janeiro il Brasile è riuscito a dare un senso alla sua partecipazione olimpica. I verdeoro non sono saliti sul podio e non sono neppure "usciti" dalla prima fase. Una delusione considerata la squadra infarcita di giocatori NBA (non c'erano Anderson Varejao e Tiago Splitter, ma c'erano Nenè, Barbosa, Neto, Cristiano Felicio) e il fattore campo. La presenza delle Olimpiadi a Rio nel basket è servita tuttavia per riportare alla ribalta la "Mano Santa". Oscar Schmidt. In un'intervista rilasciata a "The Vertical" il grande bomber di San Paolo ha espresso un'opinione fortissima: "Fossi andato nella NBA sarei stato uno dei primi 10 giocatori. Non bastava un uomo per marcarmi, ne sarebbero serviti due". Può sembrare una sparata. In fondo Oscar ha giocato soprattutto negli anni '80 quando nella NBA c'erano Magic, Larry Bird, Kareem, Julius Erving, il giovane Michael Jordan, Isiah Thomas e tanti altri basti pensare a George Gervin, James Worthy, Alex English, Dominique Wilkins, Kevin McHale, Moses Malone... Eppure... eppure Oscar potrebbe anche avere ragione.

sabato 13 agosto 2016

New York Basketball Stories 2.0: Let's Go To Coney Island




Dicono i locali che quando arrivi a Coney Island in un attimo lo sanno tutti. Per quanto sia grande e popolata, Coney Island non ha misteri. Arrivi qui solo perché ci vivi o per un motivo preciso. Non puoi dire di essere di passaggio perché da Coney Island non si va da nessun’altra parte. Coney è la sezione meridionale di Brooklyn, una volta famosa per la ruota panoramica lungo Boardwalk, la passeggiata che affianca la spiaggia, e per Nathan’s, un ristorante specializzato in hot dog che poi si è trasformato in una sorta di catena con punti vendita sparsi un po’ ovunque. Per anni Coney Island è stata un sobborgo abitato da emigrati europei, molti italiani, poi anche tanti est europei soprattutto russi e infine, gradualmente, ha cambiato colore ed è diventato una zona abitata per lo più da afroamericani.

venerdì 12 agosto 2016

Il Grande Spencer Haywood, dall'oro olimpico a Venezia



In giorni Olimpici, The Undefeated, il bellissimo sito vicino a tematiche sociali vicine al mondo afroamericano, uno spinoff di ESPN, ha pubblicato una bellissima intervista a Spencer Haywood centrata sulla sua storia personale e la sua partecipazione alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968. La storia di Haywood è struggente: cresciuto nel Mississippi rurale fino a 15 anni la sua unica occupazione era raccogliere cotone. Non c’era più la schiavitù ma lui non si è mai sentito nulla di più che uno schiavo a quei tempi. Quando il clima a casa diventò pesante e il giovane Spencer conobbe anche la prigione, la madre lo spedì a Detroit dove imparò a leggere e scrivere meglio, dove la sua carriera di giocatore ebbe un’accelerazione. Nel 1968, anno della contestazione, molti afroamericani rinunciarono alle Olimpiadi di protesta. Tra questi anche Kareem Abdul-Jabbar. La squadra di basket rimase decapitata per tanti motivi. Haywood ne diventò l’inattesa star, il capocannoniere, l’uomo della medaglia d’oro. Quando tornò a casa temeva una cattiva accoglienza da parte della gente di colore perché non aveva realizzato il significato sociale della partecipazione ai Giochi di un afroamericano. I velocisti Tommy Smith e John Carlos alzarono il pugno guantato di nero sul podio disattendendo perfino le raccomandazioni di Jesse Owens, reclutato per calmare gli animi. Haywood temeva una contestazione invece fu abbracciato come un eroe. In seguito, si rivolse al tribunale per ottenere di passare al professionismo in anticipo. Fu lui a cambiare la regola che impediva di andare nella NBA prima di quattro anni dal “debutto” al college. Per questo vorrebbe si chiamasse “Haywood Rule”. Gli diedero ragione perché era povero in canna e andare nella NBA gli serviva per sopravvivere. Giocò a Denver nella ABA, diventò una star conclamata a Seattle, poi a New York anche se in una edizione dei Knicks inferiore alle sue possibilità in cui doveva dividersi gli spazi con Bob McAdoo. Lo cedettero ai Jazz. A fine carriera avrebbe avuto 20.3 punti di media. Era una stella vera. E giocò in Italia, a Venezia.

mercoledì 10 agosto 2016

Russell Westbrook: la scelta rigenerante e la candidatura a MVP

Se Russell Westbrook avesse deciso di lasciare Oklahoma City all'indomani della fuga di Kevin Durant di fatto avrebbe messo al tappeto un'intera organizzazione. Ma nessuno avrebbe potuto accusarlo di alto tradimento. Durant gli ha servito un assist. Avrebbe potuto andare a scadenza e scegliere la nuova destinazione. Neppure uno scambio gli avrebbe forzato la mano. Anzi essendo subordinato ad un suo impegno successivo avrebbe potuto scegliersi la squadra in anticipo. Che abbia scelto anche dopo la defezione di Kevin Durant di impegnarsi con OKC rinunciando allo status di free-agent è stato rigenerante dopo un'estate di scelte economiche o di comodo.