La corsa al titolo di MVP non è stata appassionante come un
anno fa quando il mondo si era diviso tra Russell Westbrook, James Harden e nel
finale prese quota la candidatura di Kawhi Leonard. Quest’anno Harden vincerà
con largo margine sul secondo classificato ed esiste una piccola possibilità
che come Steph Curry due anni fa vinca il titolo all’unanimità. Può starci:
Harden è il miglior giocatore della miglior squadra della stagione, quella che
ha stabilito il nuovo record franchigia di vittorie, ed è il miglior
realizzatore della Lega, oltre i 30 di media. Quest’anno Harden figurerà per il
quarto anno consecutivo nel primo quintetto All-NBA e in passato è arrivato due
volte secondo nella corsa all’MVP.
La stagione passata venne battuto da Westbrook a causa
dell’unicità della stagione del razzo di OKC. Non era solo una questione di
tripla doppia ma di tripla doppia ottenuta come primo realizzatore della Lega,
come secondo nella classifica degli assist in una squadra sprovvista di
munizioni, orfana inattesa di Kevin Durant. Quest’anno, con un supporting cast
superiore, Westbrook è salito sul trono degli assist ed è scivolato indietro
nella classifica marcatori. La sua stagione non è stata necessariamente inferiore
alla precedente (9.7 rimbalzi di media, la tripla doppia è di nuovo ad un
passo) ma la percezione è cambiata. Un anno fa Westbrook era considerato il
solista che si metteva la squadra sulle spalle confezionando una stagione di
storiche dimensioni. Quest’anno è lo stesso giocatore ma dai Thunder ci si
aspettava un rendimento di squadra superiore: quello che la scorsa stagione non
l’aveva condizionato, quest’anno l’ha fatto.
E sono proprio i risultati di squadra a incoronare Harden.
Le sue cifre raccontano di una stagione strepitosa, influenzata dal ruolo che
non è stato lo stesso di un anno fa. La prima scelta di Mike D’Antoni a Houston
è stata consegnargli la palla e trasformarlo nel point-man a tempo pieno dei
Rockets. Harden ha risposto vincendo la classifica degli assist e segnando 29.1
punti a partita. Un anno dopo, è arrivato Chris Paul e il suo ruolo si è
ribaltato. Harden ha giocato da point-man il 16% del tempo trascorso in campo e
l’84% rimanente l’ha utilizzato da guardia in un quintetto tradizionale o con
tre piccoli. Il risultato è che ha segnato di più, 31 per gara, tirato di più e
perso per strada due assist e mezzo a partita. Il ruolo ha dettato i numeri.
Anche le 4.3 palle perse sono significative: con la palla sempre in mano erano
5.7 l’anno scorso.
E’ attaccabile la candidatura di Harden? Solo in parte.
Considerando candidabili oltre a lui, LeBron James, Kevin Durant, Anthony Davis
e Russell, Damian Lillard e Russell Westbrook, ci sono numeri che suggeriscono
di guardare anche altrove. LeBron ha catturato più rimbalzi e dato via più
assist; solo Lillard ha tirato con percentuali inferiori dal campo; tutti
tranne Lillard hanno catturato più rimbalzi e Westbrook – che ha taglia fisica
simile – l’ha quasi doppiato; Kevin Durant ha tirato molto meglio di lui dal
campo (come anche Giannis Antetokounmpo per la verità almeno menzionabile) e da
tre punti ovviamente; solo Westbrook tra questi ha più palle perse.
Ma Harden merita questo MVP: anche il drastico declino del
numero di rimbalzi (da 8.1 a 5.3) è cancellato dalle vittorie di squadra.
Probabile che un anno fa Harden andasse a rimbalzo di più per impossessarsi
subito della palla mentre ora è più propenso a sganciarsi in contropiede
fidandosi di Chris Paul, ovviamente, mentre Clint Capela controlla il 31% dei
rimbalzi difensivi disponibili ed erano il 22% l’anno scorso. Lo svizzero è
protagonista di una crescita costante come giocatore e potrebbe essere
meritevole del premio di elemento più progredito dell’anno (14.0 punti, 10.9
rimbalzi, 65.1% dal campo). Capela ha 23 anni e all’inizio della passata
stagione venne promosso in quintetto nel momento della partenza di Dwight
Howard. Qualcuno ha mai pensato per un momento che i Rockets abbiano pagato lo
“scambio”? Non solo per il gioco di D’Antoni un “Rim Runner” come Capela è
molto più adatto di una presenza in post basso, ma tutti i parametri
suggerivano che Capela avesse solo bisogno di spazio per esplodere.
Harden sarà dunque l’MVP per una squadra che ha vinto due
titoli, giocato quattro finali e mai aveva superato la soglia delle 60 vittorie
stagionali. Con due secondi posti e un MVP, Harden entra di diritto nella
galleria delle più grandi guardie di tutti i tempi.
ANTETOKOUNMPO
ANTETOKOUNMPO
Giannis Antetokounmpo per una porzione di stagione era stato
considerato un legittimo candidato MVP poi sono successe tante cose, ma soprattutto i Milwaukee Bucks sono scivolati
indietro nella classifica della Eastern Conference esattamente nella stagione
in cui, date le circostanze, avrebbero almeno potuto prendersi il vantaggio del
campo nel primo turno.
Giannis è un “five-tool player” come dicono nel
baseball. Da quando è entrato nella NBA grazie al suo fisico irreale e la
duttilità ha giocato effettivamente in tutti i ruoli mostrando un ventaglio di
caratteristiche totale. Sotto certi aspetti può essere anche limitativo:
Giannis è un ibrido senza ruolo. Da rookie giocava da ala piccola e qualche
volta da ala grande quando i Bucks si abbassavano. Jason Kidd aveva spiazzato
tutti dichiarandolo la point-guard della sua squadra ma poi con Malcolm Brogdon
l’anno passato e ancora di più Eric Bledose quest’anno, il suo ruolo è sempre
più diventato indecifrabile. Secondo basketball-reference il 93% del tempo
quest’anno l’ha speso da ala forte. Ovviamente non è una classica ala forte
almeno in attacco. Non è nemmeno chiaro quanto sia stato penalizzato
dall’esonero di Kidd con cui sembrava avere un rapporto molto stretto. Pare si
sia anche offerto di scongiurare il licenziamento, ma non è successo.
Tuttavia la stagione di Antetokounmpo resta non solo di
altissimo livello ma anche di crescita, tipico dei giocatori di 23 anni
arrivati nella NBA molto presto. Ha aumentato i punti, i tiri e le percentuali.
L’ultimo dato è il più significativo: aumenta la quantità ma anche la qualità
quindi l’ampliamento delle responsabilità va di pari passo con l’efficacia.
Giannis ha leggermente ridotto il numero di tiri da tre (il suo punto debole, 29.5%)
ma aumentato quelli da due. Dal campo ha il 53.2%, top in carriera, la
percentuale effettiva è del 54.6%, top in carriera, gli 8.8 tiri liberi
procurati per gara sono il top in carriera, come i 10.0 rimbalzi, i 27.3 punti.
Quest’anno ha catturato il 25% abbondante dei rimbalzi disponibili sotto il
canestro dei Bucks, una cifra altissima, probabilmente generata dall’utilizzo
da ala forte almeno nella propria metà campo. Sono diminuiti solo gli assist ma
con Bledsoe e Brogdon nella stessa squadra è chiaro che la palla in mano gli
arriva spesso in un secondo momento e con un maggior obbligo di “finire”.
E’ anche giusto dire che i Bucks come sono stati concepiti
non sono perfetti per le sue caratteristiche. Giannis è uno slasher che avrebbe
bisogno di attaccare aree non congestionate. Perché questo succeda occorrono i
tiratori. E Milwaukee non li ha. La squadra è la 27° per tiri da tre segnati e
26° per tiri da tre presi. In stagione ha eseguito circa 200 tiri da tre in
meno degli avversari diretti. L’unico vero tiratore della rotazione è Tony
Snell. Bledose, Khris Middleton, Matthew Dellavedova sono discreti tiratori ma
nessuno può davvero aprire il campo quando le difese tendono a non uscire
comunque, temendo le rappresaglie di Giannis. E’ vero che i Bucks per tre quarti
di stagione non hanno avuto il talento di Jabari Parker ma per massimizzare
Giannis è inevitabile allargare di più il campo. Dovranno tenerne conto in
futuro. Antetokounmpo è uno dei primi dieci giocatori del mondo, probabilmente anche
meglio. Essendo sotto contratto fino al 2021 il tempo per assemblare una grande
squadra accanto a lui non manca ma Milwaukee non è una free-agent destination e
dai draft non arriverà granché. Quindi il management deve trovare le pedine
giuste per valorizzarlo.
LILLARD
Damian Lillard ha 27 anni e per la quinta stagione
consecutiva sarà oltre i 20 punti di media oppure oltre i 25 per la terza. Eppure
resta un giocatore difficile da interpretare. In parte è una questione
logistica: Lillard ha giocato a Weber State dove l’esposizione è limitata, poi
è stato scelto nella seconda parte del primo giro del draft quindi con modeste
aspettative e infine è finito a Portland. Non è un mistero che giocare a tre
ore di fuso orario dalla costa est è penalizzante, soprattutto se non lo fai a
Los Angeles ma in un mercato limitato come quello di Portland. Avesse giocato a
New York è probabile – sicuro? – che la popolarità di Lillard sarebbe stata
diversa.
In fondo è un point-man che segna tantissimo, un killer nel
quarto periodo, uno dei miglior Clutch-Scorer della Lega. Eppure è entrato come
outsider nella conversazione come potenziale MVP solo nelle ultime settimane,
quelle in cui i Portland Trail Blazers, correndo un po’ di più, tirando un po’
più da tre, sfruttando la crescita di qualche elemento di teorico secondo piano
come il rookie Zach Collins, sono diventati non una semplice mina vagante ma
una squadra che entrerà nei playoff reduce da una seconda parte di stagione fulminante.
A Ovest solo Houston è stata superiore a Portland nell’ultimo mese e mezzo.
Intendiamoci: Lillard non è il miglior giocatore di questa
Lega. Considerando i primi 15 realizzatori solo Devin Booker, che gioca per una
delle peggiori squadre della Lega, ha percentuali di tiro inferiori alle sue,
segno che le scelte non sono le migliori, cattura meno della metà dei rimbalzi
di Russell Westbrook ma è anche sotto la media di Steph Curry in questo senso,
e per essere un point-man forse non crea abbastanza per i compagni (12
giocatori lo precedono negli assist). Non sono necessariamente critiche ma argomentazioni
che difendono il suo ruolo costantemente di secondo piano quando si discute dei
migliori point-guard della Lega. E’ un attaccante micidiale ma è sotto il 37%
da tre ad esempio.
Lillard è un giocatore di elite, che merita l’inclusione in
uno dei quintetti All-NBA di fine stagione (io lo metterei nel secondo), è un
legittimo Top 10 Player ma non l’MVP. Non è al livello di James Harden e non è
un all-around come Westbrook (anche se Portland quest’anno non ha mai perso
contro OKC) o un tiratore come Steph Curry. Però ha numeri migliori, in tutto,
di Kyrie Irving, punti, rimbalzi, assist.
Ma Irving fino a quando Boston ha comandato la Eastern Conference
e non si è infortunato è stato un candidato MVP. Magari mai in pole-position ma
è stato menzionato. Possibile che in un’era come quella attuale giocare a
Boston aiuti più che giocare a Portland?
Può sembrare un’esagerazione includere DeMar DeRozan in una
qualsiasi conversazione sull’MVP di questa stagione soprattutto considerando le
cifre nude e crude. DeRozan, che è una guardia di alto livello da almeno cinque
anni, sta segnando circa quattro punti a partita in meno dei 27.3 di una
stagione addietro (record carriera) ed è passato da 5.2 a 3.9 rimbalzi per
gara. Va anche meno spesso in lunetta (da 8.7 viaggi a 7.2) e sarebbe
limitativo attribuire questa minor produttività al minutaggio. Dwane Casey lo
impiega 34 minuti di media, contro gli oltre 35 di un anno fa, un decremento
nel complesso trascurabile.
DEROZAN
Ma questa è la stagione in cui DeRozan ha visto la sua
credibilità come star esplodere. In parte, discorso già fatto per Damian
Lillard, non lo aiuta la milizia nei Toronto Raptors. Nella coscienza
collettiva, Toronto non è una franchigia di riferimento e il Canada non è un
territorio cestistico. Toronto come città lo è anche meno: è la capitale dell’hockey
nel Nord-America. Quando i Raptors nacquero nel 1996, il club dedicò una
sezione della sua media-guide alla spiegazione delle regole fondamentali del
basket e ai termini che sarebbe stato opportuno conoscere. Le vittorie di
Toronto, che non è mai stata la squadra migliore della Eastern Conference e non
è mai stata davvero la favorita per approdare in finale (quest’anno potrebbe
esserlo), hanno in parte cambiato questo status e attribuito a DeRozan quella
credibilità che ha faticato a ricevere.DEROZAN
Ma non è solo questo: le vittorie hanno aiutato DeRozan ma DeRozan
ha aiutato le vittorie. Il suo gioco si è evoluto: tira meglio (non bene, resta
uomo da 32 % scarso) da tre e questo allarga il campo per le penetrazioni e per
il gioco in post basso di Jonas Valanciunas, gioca meno da terminale e più da facilitatore.
Infatti il numero di assist ha compiuto il percorso inverso rispetto ai
rimbalzi. Da 3.9 a 5.1. DeRozan è sempre stato una guardia che finalizza. Ora
ha imparato a usare la propria pericolosità e le attenzioni difensive a favore
dei compagni.
Nelle mie valutazioni è da secondo quintetto All-NBA con
Damian Lillard e Steph Curry in un assetto virtuale con tre guardie ed è un Top
10-12 della Lega. La grande sfida di Toronto in fondo è questa: giocarsi il
titolo senza una vera superstar dominante. Ammesso che DeRozan non lo sia.
DURANT E CURRY
Nel momento stesso in cui due estati fa Kevin Durant scelse
di portare il suo talento sulla Baia, istantaneamente le sue possibilità di
vincere un secondo MVP dopo quello conquistato con Oklahoma City nel 2014 si
sono ridotte. E per osmosi si sono ridotte anche quelle di Stephen Curry.
Succede sempre quando un superteam non ha un chiaro leader. A Miami era LeBron
James pur arrivando lui, da esterno, nella squadra di Dwyane Wade; ai Lakers di
inizio secolo il leader era Shaquille O’Neal e Kobe Bryant è diventato un
candidato MVP solo quando Shaq è stato ceduto a Miami; a Houston, Chris Paul è
andato a fortificare i Rockets che restano la squadra di James Harden. Durant
era il numero 1 a OKC. Probabilmente, Russell Westbrook non sarebbe mai stato
l’MVP della Lega se KD non fosse andato mai andato via. Forse.
Durant ha deciso di giocare nei Warriors che avevano già
vinto prima di lui. Durant è troppo forte e nel “prime time” della propria
carriera: può essere un numero 2 mediatico, in termini di leadership interna ma
sul piano tecnico in nessuna squadra del mondo oggi può essere… Scottie Pippen.
Ma Curry è stato due volte MVP, una volta MVP unanime. Ha rivoluzionato il
gioco, trasformando tiri da tre tatticamente irresponsabili in un’arma letale.
I Warrior sono un anomalo caso di squadra con due numeri 1. La conseguenza è
che sono sempre la squadra da battere, la più temuta e rispettata. Il rovescio
della medaglia è che le due super-superstar si ostacolano a vicenda nella
raccolta di premi individuali. In fondo, lo sapevano: Durant non è andato a
Oakland per essere l’MVP della regular season ma per esserlo della Finale. E lo
è stato.
Ecco perché due stelle di questo genere non hanno mai
davvero avuto la possibilità di essere MVP stagionali. Durant non può avere
cifre migliori di quelle di LeBron James (meno punti, meno rimbalzi, meno
assist e anche percentuali dal campo inferiori). Curry resta il miglior
tiratore della Lega per distacco: questa è la sua nona stagione su nove oltre
il 40 % nel tiro da tre sfiorando le 10 conclusioni a partita. Infatti la sua
percentuale di tiro effettiva è del 61.8 %. Per una guardia è irreale. Ma Curry
naturalmente non può reggere il confronto con la sua memorabile stagione
2015/16, quella da MVP unanime, che resta forse irriproducibile per chiunque e
una delle più grandi regular season individuali di tutti i tempi. Ma è ovvio
che anche lui ha lasciato per strada cinque punti a partita accogliendo Durant.
E’ normale.
Ci sono altre due ragioni che chiudono la strada a Curry e
Durant. Golden State ha vinto meno di Houston. La considerazione, ricordando
quanto siano forti i Warriors, è il miglior argomento a favore di James Harden
ovviamente. La seconda ragione riguarda gli infortuni: il numero di partite
saltate da Durant è accettabile, ma Curry ne ha giocate solo 51 e proprio per
questo sparirà dalle classifiche individuali. Le sue 51 partite sono state
eccellenti e dovrebbero garantirgli comunque un posto nel secondo quintetto
All-NBA ma non possono portarlo più avanti. Durant invece, con Kawhi Leonard
fuori concorso quest’anno, sarà certamente primo quintetto All-NBA da ala
accanto a LeBron.
La sua stagione dunque: di tutti i “top player”, ad
eccezione ovviamente di Steph Curry, Durant è stato il miglior tiratore da tre. Come
era prevedibile, passando a Golden State, ha potuto sfruttare gli spazi creati
dai compagni e alzare le percentuali e la propria efficienza su un livello che
a OKC non era stato possibile raggiungere. Per capirci: il 42.9% da tre è la
più alta media in carriera; il 59.2% di percentuale effettiva è in linea con
quello dell’anno passato e superiore a tutte le stagioni precedenti. Ma balzano
agli occhi anche altre cose: non tanto i 5.4 assist di media, agevolati dalla
vicinanza di tanti tiratori, quanto il top in carriera nelle stoppate che
conferma le sue qualità difensive. In negativo però ci sono i 6.7 rimbalzi, il
minimo dal 2009, i tiri liberi ovvero 5.8 a partita, il minimo dalla sua
stagione da rookie. Cosa significa? Durant quest’anno ha giocato il 77% del
proprio minutaggio da ala forte nominale, cioè accanto a tre piccoli il che
avrebbe dovuto favorirlo come rimbalzista, non danneggiarlo. Che vada meno in
lunetta (0.4 a partita giocando però un minuto in più) è un altro sintomo
inatteso.
In generale, la stagione di Durant resta di altissimo
livello ma senza dubbio condizionata dalla vicinanza con altri fenomeni,
soprattutto quando ha giocato Curry, e dagli infortuni. Resta una stagione da
Top 5, non da MVP, ma è vero che nel momento stesso in cui è andato ai Warriors,
Durant ha deciso di essere giudicato dopo i playoffs. Non prima.
RUSSELL WESTBROOK
Da un punto di vista strettamente individuale, nonostante i
ben noti difetti (tiro da tre sotto il 30 %, qualche volta resiste alla
tentazione di usarlo, spesso no, specie nei finali di gara, ma lui è così,
agonista anche nello sfidare i propri limiti) o la tendenza a esagerare, Russell
Westbrook potrebbe essere confermato MVP della stagione. Perché no? Ha vinto la classifica degli
assist così autorizzandosi a cedere a James Harden lo scettro di miglior
realizzatore della Lega e ha virtualmente viaggiato ad una tripla doppia di media per il secondo anno consecutivo. I Thunder accanto a lui sono cambiati tanto e hanno
inciso anche sulla sua stagione: ha tirato meno (soprattutto da tre), ha tirato
meglio (45 %), ha segnato meno perché è andato meno in lunetta, ha “usato” il
34.3% dei possessi di Oklahoma City contro il 41.7% di un anno fa, cifra
record. Ha assistito quasi il 50 % dei canestri segnati dai compagni con lui in
campo. Perché quindi Westbrook non dovrebbe essere l’MVP?
Ci sono due motivi: la stagione di James Harden è stata
troppo buona e assistita dai risultati dei Rockets perché gli venga tolto il
trofeo in un anno in cui è anche il capocannoniere della Lega; e Oklahoma City
non ha vinto abbastanza. Era vero anche l’anno passato: il principale ostacolo
incontrato da Westbrook nella sua corsa al titolo di MVP era nel numero di
vittorie dei Thunder, sotto l’eccellenza delle 50. Ma la squadra di un anno fa
era oggettivamente mediocre, orfana di Kevin Durant e con un Victor Oladipo
buono ma non buono com’è diventato quest’anno a Indiana. Westbrook ha
trascinato la squadra: più di così non poteva fare.
Ma quest’anno i Thunder hanno aggiunto Paul George,
un Top
15 almeno, più Carmelo Anthony come terza punta e la presenza di queste
bocche
da fuoco ha restituito a Steven Adams la possibilità di attaccare l’area
dei
tre secondi con risultati eccellenti. I Thunder avrebbero dovuto vincere
di
più, non si scappa, anche mettendo in conto l'infortunio ad Andre
Roberson (peraltro Corey Brewer lo sta sostituendo come meglio non
avrebbe potuto, meno difesa certo ma molto più attacco ed è tutto dire).
La panchina è scarsa. Patrick Patterson è rimasto al di
sotto degli standard di Toronto e per la verità è stato usato
principalmente
come cambio di Adams (via Enes Kanter, non hanno un centro di riserva
credibile), non necessariamente il ruolo perfetto. I bomber Alex Abrines
e
Terrance Ferguson hanno fatto dentro e fuori dalla rotazione. Le riserve
migliori
sono stati Raymond Felton e naturalmente Jerani Grant, un atleta
straordinario,
multifunzionale. La stagione dei Thunder è da tutto o niente: rifirmato
Westbrook, resta l’incognita Paul George. I conti si faranno dopo i
playoffs: lo star-system allestito da Sam Presti potrebbe anche
sorprendere. Ma la
regular season è stata insufficiente. Ecco perché metterei Westbrook nel
primo
quintetto All-NBA ma non tra i primi tre giocatori della stagione. Dopo Harden, tocca ad Anthony Davis
e LeBron James.
ANTHONY DAVIS
Considerato che i New Orleans Pelicans avrebbero dovuto
sparire dalla corsa ai playoffs nel momento stesso in cui hanno perso per
infortunio DeMarcus Cousins – i cui numeri restano sensazionali -, la stagione
di Anthony Davis – The Brow – è stata naturalmente stupefacente. Non è una
sorpresa: Davis è il capostipite della generazione dei centri che possono
difendere sul perimetro oltre che al ferro, attaccare dal palleggio oltre che
dentro l’area ed essere decentemente pericolosi da fuori. Vengono in mente Karl-Anthony
Towns e Joel Embiid. Tutti questi giocatori sono sempre considerati ibridi nel
senso che la tendenza è quella di accoppiarli a centri veri, teoricamente
deputati a svolgere un po’ di lavoro sporco e fisico, ma il rendimento
generalmente è migliore quando possono fare a meno di tale compagnia.
Davis quest’anno ha giocato 50-50, metà del tempo da ala e metà da ala grande. Visto che Cousins tirava da tre con facilità e che lui ha il 74.3% nelle conclusioni al ferro o in prossimità del ferro, lo spazio per aggredire l’area non è mai mancato. In ogni caso, pur ritenendolo probabilmente il terzo miglior giocatore di questa stagione, è virtualmente impossibile non considerarlo largamente il centro del primo quintetto All-NBA della stagione.
Davis quest’anno ha giocato 50-50, metà del tempo da ala e metà da ala grande. Visto che Cousins tirava da tre con facilità e che lui ha il 74.3% nelle conclusioni al ferro o in prossimità del ferro, lo spazio per aggredire l’area non è mai mancato. In ogni caso, pur ritenendolo probabilmente il terzo miglior giocatore di questa stagione, è virtualmente impossibile non considerarlo largamente il centro del primo quintetto All-NBA della stagione.
L’evoluzione di Davis è sensazionale: quando giocava a
Kentucky, un solo anno anche se travolgente, era considerato soprattutto un
devastante difensore. La sua crescita somiglia tantissimo a quella che ebbe Patrick
Ewing: a Georgetown era ritenuto un difensore d’elite ma un attaccante da
sgrezzare, ma nella NBA si è imposto prima sul versante offensivo che su quello
difensivo. Per Davis è stato lo stesso.
Al momento è un attaccante incredibile, che ha raggiunto un’apprezzabile
pericolosità anche da tre punti quindi è virtualmente immarcabile se non da un
giocatore simile a lui come statura, atletismo e rapidità. E ha solo 24 anni.
Al di là dei numeri (28.1 punti, oltre 11 rimbalzi, primo stoppatore della
Lega), Davis ha un “rating” offensivo di 119 punti per 100 possessi: i Pels
hanno 109. In difesa ha un “rating” di 104. I Pelicans come squadra sono vicini
ai 109 punti concessi per 100 possessi. Fa la differenza su ambedue i lati del
campo. Stephen Jackson l’ha definito un Tim Duncan più atletico e ovviamente
senza i San Antonio Spurs accanto. Volendo trovargli un difetto, chiaramente è
un finalizzatore che coinvolge poco i compagni. Per dire: Cousins, che ha più
del doppio dei suoi assist, “assiste” il 23% dei canestri dei compagni, lui è
sotto l’11%.
Il più grande ostacolo alla sua candidatura ad MVP in realtà
sono le vittorie di squadra ma chi tra i top ha perso il miglior compagno di
squadra? Chi ha un supporting cast così modesto a dispetto dell’addizione di
Nikola Mirotic e la presenza di un point-man “old school” quale Rajon Rondo
nella posizione di JRue Holiday? Davis è un MVP in costruzione ma la domanda a
cui tutta la NBA attende una risposta è fino a quando sarà appagato dalla
milizia in una squadra impantanata in una zona della classifica che non può
produrre nulla. La mossa che farà Cousins in estate potrebbe chiarire molte
cose.
LEBRON
LeBron James aveva cominciato questa stagione con l'atteggiamento
di un uomo in missione. Sembrava volesse appropriarsi per acclamazione
del titolo di MVP, un modo inequivocabile per mettere a tacere ogni
argomento di discussione su chi sia il miglior giocatore del mondo o su
un suo presunto declino. Le difficoltà di Cleveland, con la conseguente
rivoluzione del roster, hanno determinato una sorta di passaggio a
vuoto, anche mentale, attorno a metà stagione in cui James Harden nella
percezione pubblica ha allungato decisamente, lasciandoselo alle spalle.
Così probabilmente LeBron non sarà l'MVP della stagione. Non si
aggiudica il trofeo dal 2014. Guardando all'età verrebbe da dire che è
normale: superati i 33 anni, sarebbe legittimo si risparmiasse durante
la regular season per dare il meglio nei playoffs. Non dimentichiamo che
LeBron gioca la Finale ininterrottamente dal 2011 (sono sette di fila
praticamente due anni di carriera supplementari).
Ma non è così: ad eccezione dei tiri liberi, vero anche se scostante tallone d'Achille (è sotto il 73%, comunque meglio dell'anno passato), in tutte le statistiche LeBron è oltre le medie carriera. Segna di più, tira meglio, cattura più rimbalzi, distribuisce più assist. Anche come tiratore da tre è oltre. Sta finendo l'anno vicino ai nove rimbalzi e oltre i nove assist per gara, quindi è dalle parti di Russell Westbrook come cifre globali. Non segnava 27.7 punti di media dal 2011. E per la terza volta, la seconda consecutiva, guiderà la Lega in minuti di impiego per gara. A conferma che si tratta di un vero "Ironman" che sta riscrivendo tutte le regole di durata e longevità ai massimi livello di rendimento.Infatti anche se la stagione di James Harden e le vittorie dei Rockets - Cleveland ha avuto una regular season nel complesso inferiore alle aspettative o alle ambizioni - gli impediranno di essere l'MVP, LeBron è legittimamente stato il numero due della stagione ed è certamente destinato a finire nel primo quintetto All-NBA. Per essere chiari, è dal 2007/08 compreso che viene incluso nel primo quintetto stagionale. Non fa neppure notizia o sensazione, soprattutto in una stagione in cui per la prima volta da molti anni la sua squadra non è la favorita per il titolo della Eastern Conference, non è detto arrivi in finale e soprattutto la sua decisione riguardo il proprio futuro tiene banco da mesi, senza che sia emersa un'indicazione concreta se non quelle suggestive di un trasferimento sulla costa ovest per rifare grandi i Lakers (ma in quanto tempo?), un'unione delle forze con Chris Paul e James Harden a Houston (ma somiglierebbe troppo a quello che ha fatto due anni fa Kevin Durant) o addirittura a Philadelphia con l'erede Ben Simmons e Joel Embiid ma con mille altri dubbi sull'opportunità di farlo davvero dei quali si parlerà per giorni dopo i playoffs.
In definitiva, chiusa la carrellata dei potenziali MVP con James Harden legittimo vincitore, questi sono i miei tre quintetti All-NBA, cercando di rimanere il più agganciato possibile ai ruoli pur sapendo che al momento la NBA è più ricca di guardie che di ali e che i centri non sono mai centri veri.
Primo quintetto
Guardie: James Harden, Russell Westbrook
Ali: Kevin Durant, LeBron James
Centro: Anthony Davis
Secondo quintetto
Guardie: Damian Lillard, Stephen Curry
Ali: Giannis Antetokounmpo, LaMarcus Aldridge
Centro: Joel Embiid
Terzo quintetto
Guardie: Kyrie Irving, DeMar DeRozan
Ali: Jimmy Butler, Karl-Anthony Towns
Centro: Nikola Jokic
Ma non è così: ad eccezione dei tiri liberi, vero anche se scostante tallone d'Achille (è sotto il 73%, comunque meglio dell'anno passato), in tutte le statistiche LeBron è oltre le medie carriera. Segna di più, tira meglio, cattura più rimbalzi, distribuisce più assist. Anche come tiratore da tre è oltre. Sta finendo l'anno vicino ai nove rimbalzi e oltre i nove assist per gara, quindi è dalle parti di Russell Westbrook come cifre globali. Non segnava 27.7 punti di media dal 2011. E per la terza volta, la seconda consecutiva, guiderà la Lega in minuti di impiego per gara. A conferma che si tratta di un vero "Ironman" che sta riscrivendo tutte le regole di durata e longevità ai massimi livello di rendimento.Infatti anche se la stagione di James Harden e le vittorie dei Rockets - Cleveland ha avuto una regular season nel complesso inferiore alle aspettative o alle ambizioni - gli impediranno di essere l'MVP, LeBron è legittimamente stato il numero due della stagione ed è certamente destinato a finire nel primo quintetto All-NBA. Per essere chiari, è dal 2007/08 compreso che viene incluso nel primo quintetto stagionale. Non fa neppure notizia o sensazione, soprattutto in una stagione in cui per la prima volta da molti anni la sua squadra non è la favorita per il titolo della Eastern Conference, non è detto arrivi in finale e soprattutto la sua decisione riguardo il proprio futuro tiene banco da mesi, senza che sia emersa un'indicazione concreta se non quelle suggestive di un trasferimento sulla costa ovest per rifare grandi i Lakers (ma in quanto tempo?), un'unione delle forze con Chris Paul e James Harden a Houston (ma somiglierebbe troppo a quello che ha fatto due anni fa Kevin Durant) o addirittura a Philadelphia con l'erede Ben Simmons e Joel Embiid ma con mille altri dubbi sull'opportunità di farlo davvero dei quali si parlerà per giorni dopo i playoffs.
In definitiva, chiusa la carrellata dei potenziali MVP con James Harden legittimo vincitore, questi sono i miei tre quintetti All-NBA, cercando di rimanere il più agganciato possibile ai ruoli pur sapendo che al momento la NBA è più ricca di guardie che di ali e che i centri non sono mai centri veri.
Primo quintetto
Guardie: James Harden, Russell Westbrook
Ali: Kevin Durant, LeBron James
Centro: Anthony Davis
Secondo quintetto
Guardie: Damian Lillard, Stephen Curry
Ali: Giannis Antetokounmpo, LaMarcus Aldridge
Centro: Joel Embiid
Terzo quintetto
Guardie: Kyrie Irving, DeMar DeRozan
Ali: Jimmy Butler, Karl-Anthony Towns
Centro: Nikola Jokic
Nessun commento:
Posta un commento