lunedì 28 maggio 2018

Il superotto di LeBron James


La nona finale della carriera di LeBron James (eguagliato Magic Johnson che ne vinse cinque) è anche l’ottava consecutiva. Ma mai era arrivata partendo dal numero 4 del tabellone e con una squadra oggettivamente così debole, dopo una stagione che ne ha racchiuse almeno tre in pochi mesi. Solo nel 2007 quando non aveva ancora 23 anni l’approdo in finale poteva essere considerato stupefacente come lo è adesso. I Cavaliers hanno cominciato questa stagione perdendo Kyrie Irving, la seconda star della squadra, legittimamente uno dei primi 10-12 giocatori di questa Lega; l’esperimento Isaiah Thomas è fallito; affiancare a LeBron, in una specie di operazione nostalgia+amicizia, Dwyane Wade è stato un altro fallimento. La rivoluzione di febbraio ha fatto precipitare la squadra in classifica, afflitta da una difesa terribile e un’attitudine spesso peggiore. La perla della rivoluzione, Rodney Hood, è fuori dalla rotazione. Per arrivare in finale, Cleveland ha dovuto vincere due volte una gara 7. Probabilmente Indiana meritava di avanzare più dei Cavaliers nel primo turno; l’ostacolo più arduo, Toronto, si è rivelato un clamoroso bluff; Boston ha avuto una stagione stupefacente ma l’accesso dei Celtics in finale era il solo evento che avrebbe avuto addirittura meno senso, date le circostanze. Boston, se avesse vinto gara 7, sarebbe entrata in finale con un record di 1-7 in trasferta nei playoff, due vittorie in gara 7 come Cleveland ma tutte e due ottenute proteggendo il fattore campo. I Celtics meritavano la finale, per come e dove sono arrivati senza i loro due migliori giocatori (e Dan Theis), ma appunto avrebbe avuto meno senso di vedere qui LeBron, a tratti da solo.

Ci sono state partite in questi playoff, inclusa la finale di conference (era dal 1979 che non c’era bisogno di due gare 7 per designare le finaliste), in cui soprattutto all’inizio sembrava quasi che LeBron credesse sinceramente di poter vincere la partita da solo, nel senso letterale del termine, ovvero facendo tutto e magari segnando tutti i punti della sua squadra. Per arrivare ad una finale in cui sarà meno favorito di quanto lo sia stato in tutte le ultime sette e forse persino più di quanto lo fosse nel 2007 contro gli Spurs all’apice del loro ciclo, ha dovuto segnare sei volte più di 40 punti, realizzare tre triple doppie e infine giocare a Boston, con Kevin Love assente, 48 minuti filati, a quasi 34 anni di età. I Cavaliers giocheranno la loro quarta finale consecutiva, come hanno fatto i Miami Heat dei Big Three, ma senza Wade e Bosh. I Big Three di Cleveland dovevano essere LeBron, Kyrie Irving e Kevin Love. Irving non c’è più e Love non è mai stato un “numero tre” paragonabile al Chris Bosh di Miami se non a tratti, occasionalmente. L’onnipotenza di LeBron però è superiore adesso. Gioca con la consapevolezza, la padronanza delle situazioni che in precedenza ha avuto solo Michael Jordan nella seconda tripletta dei Bulls. Nella post-season ha avuto 34.0 punti, 9.2 rimbalzi e 8.8 assist di media in 41.3 minuti di impiego. Nelle partite vinte non ha mai giocato meno di 38 minuti ma sono state due gare vinte facilmente.
C’è stato un momento significativo in gara 7: quando Terry Rozier – tornato sul Pianeta Terra dopo essersi inventato star all’uscita di scena di Irving – dopo aver osato prendersi un tiro da tre in faccia a James (sbagliandolo), in contropiede ha tentato una schiacciata irreale in testa a LeBron che fisicamente è il doppio di lui. Sarebbe stata la versione 2018 del “The Dunk” di John Starks su Michael Jordan nel 1993 ma Starks fisicamente era simile a MJ. LeBron ha respinto quell’irriverente tentativo con una stoppata tonante. Dopodiché ha osservato i compagni eseguire e completare il contropiede rimanendo fermo sotto il proprio canestro. Una parte di lui recitava. Una parte di lui voleva enfatizzare il momento, il gesto, forse anche irridere l’avversario umiliato (Brad Stevens l’ha poi fatto sedere, giustamente, e quando è rientrato Rozier ha continuato a lanciare palloni contro il ferro, un finale di stagione immeritato per un giocatore coraggioso e davvero sorprendente). Ma quello che LeBron stava facendo era più profondo. LeBron stava recuperando.

Di recente è uscita una statistica che anni fa non sarebbe stata possibile: misura i metri percorsi da ogni giocatore durante la partita e persino la velocità media, espressa in chilometri orari o metri al secondo. LeBron è risultato il giocatore più “lento” della Lega. Nel senso che la velocità media a cui gioca è la più bassa. Ovviamente non è il giocatore più lento della NBA, non è nemmeno vicino ad esserlo, ma ha imparato a gestire le energie. Se i compagni vanno in contropiede e lui ha eseguito il primo passaggio non sprinta inutilmente. Si ferma. Se non può correre in transizione – e allora è davvero veloce! – e si fa consegnare la palla, cammina velocemente, non corre. Se deve prendersi un possesso di riposo sa quando farlo sia in attacco che in difesa. Così risparmia energie e allunga il tempo di presenza in campo. Fino ad arrivare ai 48 minuti di gara 7, nella centesima partita della sua stagione. Che sono una mostruosità.
E’ possibile che nel giro di pochi giorni si parli della sua sesta finale persa in carriera. E’ probabile, più che possibile. La realtà è che è ha vinto le ultime sei volte che ha giocato una gara 7. La realtà è che ha vinto tre volte una serie partendo da 0-2. La realtà è che mai come in questo momento considerarlo il più vicino possibile a Michael Jordan o meritevole di essere paragonato a lui appare legittimo.

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