domenica 10 luglio 2016

Mike D'Antoni: Houston è la nuova sfida del Rivoluzionario



A 65 anni di età Mike D’Antoni si gioca a Houston probabilmente l’ultima chance di portare a termine un ultimo grande progetto nella NBA. I Rockets sono una “first-class organization”, determinati a vincere, strutturati, moderni. Il general manager Daryl Morey è un fanatico delle statistiche avanzate, a suo modo un precursore. Ha impostato tutta l’organizzazione su queste convinzioni con risultati che finora sono stati buoni anche se non ottimi. Il massimo è stato una finale di conference persa 4-1 contro Golden State nel 2015. L’ultimo anno è stato un passo indietro, nei risultati, nello sviluppo del sistema, nella credibilità.
I Rockets hanno sempre avuto stabilità sotto la leadership del proprietario Les Alexander. Rudy Tomjanovich è stato l’allenatore dei due titoli. Poi ci sono stati Jeff Van Gundy, Rick Adelman e Kevin McHale. Tutti al loro posto per almeno quattro anni. Van Gundy per settimane è stato considerato il grande favorito: aveva lasciato un buon ricordo e il lavoro televisivo ha incrementato la sua popolarità. Ma alla fine, dopo una lunga lista di candidati “intervistati” ha vinto D’Antoni.
Conoscendo Mike non è difficile immaginare che il suo colloquio sia stato il migliore e con quello abbia spazzato via la concorrenza. D’Antoni ha fascino, carisma, educazione, bellissimi modi di fare, disponibilità e infine grande sicurezza. Non tutti hanno accolto favorevolmente la scelta: Houston era considerata giustamente una mediocre squadra difensiva e la scelta di un allenatore difensivo come sarebbe stato Van Gundy o come sarebbero stati Tom Thibodeau o Frank Vogel era non solo attesa ma addirittura invocata.

D’Antoni è considerato un guru dell’attacco ma un mediocre coach difensivo e poco attratto dall’utilizzo dei big man come Dwight Howard, uscito repentinamente dal contratto per andare ad Atlanta, Howard che aveva già conosciuto D’Antoni ai Los Angeles Lakers, dove diventò in pratica la prima star NBA a lasciarli piuttosto che ad abbandonare un altro club per unirsi a loro.
Ma ci sono molti aspetti superficialmente ignorati che promuovono la scelta di D’Antoni. Intanto, l’identità della squadra. Houston applica sul campo quello che D’Antoni con un salto in avanti rivoluzionario predicava 15 anni fa. Ovvero il ricorso massiccio al tiro da tre, il pick and roll in transizione per generare canestri facili o scarichi su esterni appostati sul perimetro, sempre almeno tre. Ritmi di gioco altissimi in cui persino i falli disturbano perché abbassano il livello di frenesia del gioco. Tutto questo modo di vedere il basket, con quintetti piccoli, coincide perfettamente con le teorie analitiche di Morey e dei Rockets. In un certo senso se un club vuole giocare esaltando questi concetti – come hanno fatto a Golden State ad esempio – non esiste un allenatore più adatto di Mike D’Antoni.
Nella NBA, Mike ha allenato brevemente i Denver Nuggets, la sua esperienza a New York è stata una sorta di coito interrotto nel momento in cui pur di avere Carmelo Anthony subito i Knicks gli smantellarono una squadra che, passo dopo passo, stava funzionando. Ai Lakers è andato male. Come Mike Brown prima di lui. Come Byron Scott dopo di lui. Non c’erano le condizioni per fare meglio. Quindi per capire quanto valga D’Antoni come allenatore NBA i quattro anni da capo a Phoenix rappresentano il “case study” migliore.
Nel 2004/05 con l’esaltazione di Steve Nash, che avrebbe vinto due volte il titolo di MVP (Kobe Bryant l’ha vinto una volta: senza offesa per Nash, basta questa considerazione per capire quanto sia discutibile il criterio di assegnazione del trofeo), D’Antoni fu nominato allenatore dell’anno e dimostrò come il suo gioco, il suo “smallball”, potesse funzionare ai massimi livelli. I Suns vinsero 62 partite quell’anno e furono eliminati nei playoffs dai San Antonio Spurs 4-1 e giocarono con mezzo Joe Johnson: si era rotto un osso sopra l'occhio. Gli Spurs avrebbero eliminato Phoenix tre volte in quattro stagioni, in due di queste tre volte avrebbero poi vinto il titolo. Nel 2006, i Suns di D’Antoni furono battuti da Dallas 4-2. Dallas non vinse il titolo ma solo perché si suicidò contro Miami. O venne suicidata dagli arbitri. In ogni caso si trattò di uno dei rari casi in cui una serie di playoffs al meglio delle sette partite venne vinta dalla squadra meno forte.
Gli anni di D’Antoni a Phoenix: 62-20 nel 2005; 54-28 nel 2006; 61-21 nel 2007; 55-27 nel 2007/08 quando però gli imposero Shaquille O’Neal. Era un giocatore declinante ma condizionante, di sicuro modificò la squadra in modo pesante. Non potevano più essere i suoi Suns. Come la sua Milano non poteva essere tale con l'innesto di Darryl Dawkins nel 1991 dopo la riedizione della Banda Bassotti del suo primo anno da capo (inciso comprensibile soprattutto per chi ha conosciuto davvero la sua storia di allenatore all'Olimpia).

In quelle quattro stagioni, i Suns ebbero sempre il primo o il secondo miglior indice offensivo della Lega. Segnavano 115.01 punti ogni 100 possessi nel 204/05, 112.27 nel 2005/06; 114.68 nel 2006/07; 113.3 nel 2007/08. Una macchina da canestri. In difesa oscillavano tra il 13° posto (106.50 punti concessi ogni 100 possessi nel 2006/07) e il 16° del 2004/05 e del 2007/08. La differenza tra punti segnati e subiti su 100 possessi è sempre stata tra le prime tre della Lega. I conti tornavano. Ma è vero che non ha vinto. Si può spiegare perché sia successo?

Nel 2005/06, secondo anno dell’era dei “7 seconds or less”, Amar’e Stoudemire, uno dei giocatori chiave della squadra si infortunò al ginocchio e riuscì a giocare in tutto… tre partite. I Suns vinsero 54 gare e arrivarono fino alla finale di conference battendo due volte i Mavericks senza il loro top scorer e secondo miglior giocatore dopo Nash. Potevano vincere il titolo senza di lui? Gli infortuni tuttavia fanno parte del gioco.

Ma nel 2006/07 quando i Suns sembravano davvero maturi per vincere il titolo, con Joe Johnson, Shawn Marion, Steve Nash, Amar'e Stoudemire rientrato, tutti al top, nella serie con San Antonio successe qualcosa difficile da digerire anche 10 anni dopo. I Suns pareggiarono la serie sul 2-2 vincendo gara 4 in Texas ma nei secondi conclusivi - a partita finita - Robert Horry fece un fallo inutile, gratuito su Nash. Un fallo scorretto tanto che il giocatore venne squalificato per due gare, sanzione abbastanza inusuale e severa. Ma Boris Diaw e Amar'e Stoudemire ingenuamente - il fallo venne eseguito in pratica davanti alla panchina - abbandonarono l'area designata ed entrarono in campo. I regolamenti NBA dicono che se entri in campo durante un alterco la sospensione è automatica. Nel 1997 i Knicks persero una serie contro Miami per questo motivo. I Suns persero quella del 2007. Senza Stoudemire e Diaw non avevano una chance contro il Tim Duncan del 2007, così persero gara 5 in casa cedendo di nuovo il fattore campo agli Spurs. In gara 6 i due rientrarono ma si giocava a San Antonio e gli Spurs non persero l'occasione. Quell'anno vinsero il titolo battendo in finale 4-0 i Cleveland Cavaliers di LeBron James, alla sua prima Finale. I Suns ancora oggi si sentono derubati di un titolo. E definire D'Antoni un coach che non è mai andato vicino alla Finale o al titolo è ingiusto.

Quindi siamo a Houston, la grande sfida del coach più rivoluzionario. Una squadra costruita attorno a James Harden, che ha perso Dwight Howard volontariamente. Se i Rockets fossero stati preoccupati di perderlo non avrebbero scelto D'Antoni. Invece l'hanno fatto, quindi hanno altre idee. Di squadra, di free-agent, di sistema. I Rockets hanno fatto un passo indietro ma rappresentano una destinazione spesso ambita. Città attraente, tempo bello, possibilità di allenarsi anche fuori stagione, non ci sono tasse statali, quindi ha tante cose che spingono a suo favore. Ora i Rockets ne hanno una in più. D'Antoni e il suo sistema valorizzano giocatori. E' sempre stato così: Jeremy Lin è un buon giocatore NBA ma in nessuna squadra ha giocato come nei Knicks di D'Antoni. Sono cose che i free-agent notano e non solo loro. Proprio Harden ha accettato di estendere il contratto in corso prima della scadenza eliminandosi di fatto come free-agent. E' già un segnale.

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