Karl Malone è nato a
Summerfield, in Louisiana, un paesino di poche centinaia di abitanti. Il padre
lasciò la famiglia quando Karl aveva solo quattro anni. Dal 1967 al 1975 mamma
Shirley, un donnone con i capelli bianchi che somigliava a Karl in modo
sconcertante, ha lavorato ogni minuto della propria vita per mantenere la
famiglia. Nel ’75 sposò il proprietario di un magazzino a trenta chilometri da
Summerfield, un certo Ed Turner. I ritmi di lavoro avrebbero potuto
ammorbidirsi ma Shirley non era il tipo di donna che resta a casa. Scelse di
lavorare alle dipendenze del marito. Tre anni dopo il padre biologico di Karl
morì per un tumore osseo. Solo come un cane, negli ultimi giorni di vita fu
confortato proprio da Shirley (sarebbe morta nel 2003 prima dell’ultima
stagione agonistica di Malone, ai Lakers) che pure avrebbe avuto tutte le
ragioni del mondo per ignorarlo. Ma Shirley, oltre a un’etica lavorativa
eccezionale, oltre allo spirito di sacrificio, era anche una donna di grande
generosità. Tutte queste qualità vennero trasmesse integralmente a Karl. Ecco
perché la sua è stata una carriera lunghissima, ecco perché, passati da un
pezzo i 30 anni, ha continuato a progredire, ecco perché in carriera
praticamente si contano sulle dita di una mano le partite saltate da Malone per
infortunio. Era così orgoglioso, che quando era infortunato ma giocava lo
stesso si rifiutava persino di parlarne. Successe anche nella Finale del 1997
quando giocò con la mano destra lacerata, perennemente fasciata.
Opinioni, analisi e i miei libri: il mondo del basket americano visto da me di Claudio Limardi
martedì 29 agosto 2017
lunedì 28 agosto 2017
American Way: Jordan e Jeter compagni di squadra!
I Miami Marlins sono uno dei grandi misteri dello sport americano. Hanno vinto due titoli nella loro storia e sono stati per lo più insignificanti in tutte le altre stagioni. Vinsero le World Series del 2003 in un epico duello con gli Yankees. Da una parte una franchigia priva di storia e di conseguenza fascino e dall'altra quella più famosa del mondo. Josh Beckett lanciò in gara 6 come se fosse stato baciato da Dio. I Marlins, allora Florida Marlins, vinsero le World Series.
In questi giorni i Marlins sono stati ceduti per 1.2 miliardi di dollari ad un gruppo di 16 investitori. Una cordata diremmo noi. Sono tutti uomini e quasi tutti finanzieri. Ma del gruppo fanno parte curiosamente due degli atleti più popolari degli ultimi 30 anni di sport americano: Michael Jordan e Derek Jeter.
In questi giorni i Marlins sono stati ceduti per 1.2 miliardi di dollari ad un gruppo di 16 investitori. Una cordata diremmo noi. Sono tutti uomini e quasi tutti finanzieri. Ma del gruppo fanno parte curiosamente due degli atleti più popolari degli ultimi 30 anni di sport americano: Michael Jordan e Derek Jeter.
giovedì 24 agosto 2017
Isaiah Thomas-Kyrie Irving: il punto di vista dei Cavaliers
Koby Altman è il secondo general manager meno pagato dell'intera NBA perché questo è lo stile di Dan Gilbert che infatti ha determinato la partenza del rispettato Dave Griffin e la rinuncia del concupito Chauncey Billups. Ma al primo test, Altman è uscito ingigantito almeno come immagine. In condizioni normali non avrebbe mai voluto cedere Kyrie Irving ma in questo contesto non poteva fare diversamente. E' stato bravo perché ha centrato tutti gli obiettivi che poteva avere.
mercoledì 23 agosto 2017
Kyrie Irving: il punto di vista dei Celtics
Kyrie Irving è il giocatore più fortunato del mondo: ha chiesto di lasciare i Cleveland Cavaliers quindi LeBron James e una squadra che ha giocato le ultime tre finali NBA, una richiesta che spesso finisci per rimpiangere per anni quando resti a settimane di distanza dal tornare su quel palcoscenico, e invece si è trovato a Boston. Ovvero la squadra più indicata per succedere a Est al ciclo dei Cavs.
domenica 20 agosto 2017
NBA Finals 1996: Toni Kukoc
Nel 1990, i Los Angeles
Lakers scelsero alla fine del primo giro il serbo Vlade Divac. Jerry Krause non
lo prese perché non sapeva bene chi fosse e quanto valesse. Decise che da quel
momento avrebbe iniziato a seguire il mercato europeo come meritava e non gli
sarebbe più sfuggito nessuno. “Se in Europa ci sarà un altro Divac lo troverò e
lo porterò a Chicago”, giurò a sé stesso. L’innamoramento di Krause
per Kukoc cominciò allora e gli creò non pochi problemi con Scottie Pippen, che
chiedeva un nuovo contratto e vedeva i Bulls spendere soldi ed energie per
inseguire la “Croatian Sensation”. “Ho un sogno – confessò Krause – Toni in
mezzo a portare palla e Jordan e Pippen ai suoi fianchi”. Quando Kukoc arrivò
in America invece Jordan si ritirò e i Bulls smisero di essere la squadra che
Toni pensava di trovare. In compenso ebbe subito più spazio del previsto.
venerdì 18 agosto 2017
Finalmente i Sixers proveranno a vincere
Per la prima volta da molti anni i Sixers si avvicinano ad una stagione con ambizioni concrete e la chance di fare i playoffs. Di recente - che fossero gestite dal Processo di Sam Hinkie o dai metodi un po' meno provocatori di Bryan Colangelo - i 76ers hanno giocato per scegliere in alto nei draft successivi e proteggere la salute dei loro giovani. Nel perseguire il secondo obiettivo hanno reso più agevole centrare il primo.
lunedì 14 agosto 2017
American Way: Los Angeles in soccorso delle Olimpiadi
Los Angeles dovrà aspettare 11 anni per avere un'Olimpiade che avrebbe (quasi) potuto organizzare domani. Se c'è al mondo una città adatta ad ospitare le Olimpiadi questa è Los Angeles. Ha già il villaggio come nel 1984 grazie ai campus delle due grandi università locali (utilizzerà UCLA nel '28). Ha impianti virtualmente pronti che furono il grande segreto dell'edizione del 1984 quando le Olimpiadi erano sull'orlo dell'estinzione ma Los Angeles chiuse il bilancio in attivo di 225 milioni di dollari che servirono per finanziare lo sport di base e olimpico. Secondo Peter Ueberroth, il manager che guidò Los Angeles 1984, da quelle Olimpiadi proveniva il finanziamento più sostanzioso agli atleti americani di Rio 2016. 32 anni dopo quell'evento.
domenica 13 agosto 2017
NBA Finals 1995: il dramma di Nick Anderson
C’era un sole cocente il
giorno in cui Orlando, ospitando la prima partita della Finale, entrava
ufficialmente nel grande mondo del basket NBA. Nick Anderson fu uno dei primi
ad arrivare alla O-rena. Accompagnato dal figlioletto, parcheggiò l’auto appena
fuori l’ingresso riservato agli atleti. Si cambiò rapidamente e poi diede
inizio alla sua routine pregara fatta di tiri da ogni posizione e molti tiri
liberi. Ne sbagliò pochissimi quel giorno, come sempre del resto. Non avrebbe
mai immaginato quel che sarebbe accaduto poche ore dopo. Forse avrebbe dovuto.
Chi conosce Nick Anderson sa che è tanto duro fisicamente quanto fragile
dentro.
Nick viene da una delle
peggiori zone di Chicago ed è sempre stato abituato a convivere con un mondo
fatto di spacciatori, di delinquenti, di droga e violenza. Uno dei suoi amici,
Benji Wilson che secondo la leggenda era più forte di lui, un giorno per un
banale screzio di strada finì sdraiato in terra in una pozza di sangue. Ucciso.
Nick ne fu sconvolto. Dedicò all’amico scomparso tutta la sua carriera
indossando sempre il suo numero 25. Anderson fu il primo uomo scelto da Orlando
nella sua storia, una guardia tiratrice in grado di giocare in pivot basso, di
aggredire in difesa e di far pesare sempre i propri muscoli. Un giocatore
straordinario e anche un bravo ragazzo. Ma il cuore, la testa, quel giorno di
giugno del 1995, lo tradirono inaspettatamente e immeritatamente.
domenica 6 agosto 2017
American Way: il fascino morboso del caso OJ Simpson
Come farà OJ Simpson dopo nove anni di prigione ad adattarsi a 70 anni ad un mondo nel frattempo cambiato così tanto? Ovviamente è una battuta vista la pensione che percepirà come ex giocatore della NFL con 11 anni di esperienza. Nel 1994 quando aveva 47 anni e venne accusato dell'omicidio della ex moglie e di un ragazzo giovane che faceva il cameriere a Brentwood nel ristorante sbagliato, io ero in America e rimasi sbalordito di fronte alla fissazione mediatica e pubblica creatasi attorno al caso.
venerdì 4 agosto 2017
NBA Finals 1994: Hakeem Olajuwon
Quando Olajuwon uscì per
la prima volta dal terminal dello Houston Hobby Airport era forte dei suoi 208
centimetri lungo i quali all’epoca non erano distribuiti più di 80 chili, il
frutto di un’alimentazione incompleta, riso sei volte alla settimana e poco
d’altro. Aveva in tasca l’indirizzo della University of Houston e un pacchetto
di banconote arrotolate e nascoste chissà dove. Fermò un taxi. Prese posto sul
sedile posteriore e con il suo accento africano colpì l’autista come un
fulmine. “Ehi ma tu sei nigeriano come me!”. Il primo contatto di Hakeem
Olajuwon con Houston fu subito fortunato, un segno del destino. Veniva da una
giornata spesa in aereo. Cinque università da visitare, la prima doveva essere
St.John’s, appena sbarcato a New York. Ma era l’ottobre del 1980 e appena mise
la testa fuori dal terminal del JFK nel Queens, una ventata gelida lo rispedì
all’interno. Andò subito al bancone del check-in e si fece anticipare il volo
per Houston, previsto due giorni più tardi. Ricordava che all’ambasciata
americana, dov’era andato per ottenere il visto d’ingresso negli Stati Uniti,
gli avevano detto che New York è freddissima l’inverno e che Houston, per lui
amante del caldo, sarebbe stata molto meglio. E poi Christopher Pond,
l’allenatore americano nato nel North Carolina ma con la vocazione del
missionario in valigia, che l’aveva scoperto ai Campionati Africani juniores
dove guidava il Centrafrica, gli aveva chiesto come favore personale di
considerare Houston prima di qualsiasi altra destinazione, vale a dire North
Carolina State, Georgia, St.John’s e Providence, insomma tutte quelle che
avevano accettato di dare uno sguardo a questo ragazzone di Lagos.
mercoledì 2 agosto 2017
American Way: le contraddizioni di Miami
La prima volta che andai a Miami mi misero in guardia: stai lontano da
Overtown, da Liberty City. Negli anni 90 Miami salì al primo posto della
classifica degli omicidi. L'omicidio di Gianni Versace su Ocean Drive,
il lungomare affollatissimo di South Beach davanti alla sua villa
diventata un boutique hotel, dopo una colazione al popolarissimo News Cafè rappresentò
per il clamore, la location e la fama della vittima l'apoteosi dei
pericoli di Miami. Da allora la città è scesa sotto il trentesimo posto
nella classifica degli omicidi. Ma quando esplode lo fa in modo
fragoroso. Basti pensare allo zombie di South Beach. Non c'è
una spiegazione logica e forse non c'è una spiegazione e basta.
martedì 1 agosto 2017
Tutto quello che si nasconde dietro la richiesta di Kyrie Irving
Non è mai salutare dal punto di vista dell'immagine chiedere di essere
scambiato soprattutto se lo fai per motivi percepiti come egoisti e
vorresti lasciare una squadra reduce da tre finali in tre anni per
andare chissà dove ma presumibilmente in un club con prospettive
immediate diverse. La mossa di Kyrie Irving - vuole lasciare Cleveland
per essere il vero leader di una sua squadra - non è stata una mossa
popolare ma ci sono aspetti che vanno considerati per avere un quadro
esatto della questione.
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