Giannis Antetokounmpo andrà a scadenza di contratto nel
2021. Significa che fortunatamente i Milwaukee Bucks hanno ancora tre anni per
convincerlo a spendere la parte più importante della sua carriera nel
Wisconsin. Kareem Abdul-Jabbar un giorno disse che lo stile di vita di
Milwaukee – Harley-Davidson a parte – non si adattava al suo. Abdul-Jabbar è
stato il più grande giocatore nella storia della franchigia e il motivo dell’unico
titolo che abbiano mai vinto. Ceduto lui ai Lakers, non sono più tornati in
finale anche se hanno avuto buoni momenti e grandi giocatori. Marques Johnson e
Sidney Moncrief erano le stelle negli anni ’80 quando i Bucks erano la terza
forza all’est dopo Boston e Philadelphia; poi c’è stata la squadra di Ray Allen
e Glenn Robinson che arrivò ad una partita dalla fine del 2001. Ma
individualmente Giannis è il più grande giocatore che abbia mai giocato nei
Bucks dopo Abdul-Jabbar e ricordando che Oscar Robertson trascorse a Milwaukee
la parte terminale della propria carriera. Ma Antetokounmpo – uomo franchigia –
rischia di diventare per i Bucks quello che Anthony Davis è per i Pelicans. Una
star troppo grande per tenerla confinata in eterno in un mercato così piccolo
se il cast di supporto, come lo chiamava Michael Jordan, non sarà da titolo.
Opinioni, analisi e i miei libri: il mondo del basket americano visto da me di Claudio Limardi
lunedì 30 aprile 2018
sabato 28 aprile 2018
Ma questo di Rudy Gobert non era un fallo sul tiro da tre?
E’ molto italiano parlare del “non fallo” di Rudy Gobert su
Paul George. Se anche fosse stato chiamato un imbarazzante George avrebbe
dovuto andare sulla linea e fare 3/3 per portare la sfida al supplementare (in
realtà Utah avrebbe avuto un’altra opportunità). In queste ultime gare di
playoffs ci sono state tantissime chiamate controverse, il goal-tending di
LeBron James su Victor Oladipo, i 24 secondi non chiamati ad Al Horford che
hanno aiutato i Celtics a vincere gara 5 su Milwaukee ad esempio. La NBA spiega
tutto e ha spiegato anche la non chiamata di Ron Garretson, arbitro
espertissimo e figlio di Darrell Garretson, forse il più grande arbitro di
tutti i tempi, ma il problema resta e forse potrebbe generare altre riflessioni
sulla natura stessa del basket.
Il fallimento di OKC, Westbrook come Iverson e uno scambio di troppo
Tornassero indietro a OKC rifarebbero esattamente le stesse
mosse che hanno caratterizzato la scorsa estate. La “trade” per Paul George e
infine anche quella per Carmelo Anthony avevano un fine: restituire ai Thunder
un ruolo da potenziale contendente per il titolo per poter offrire a Russell
Westbrook motivi non solo economici per firmare un contratto mostruoso a lunga
scadenza (35 milioni l’anno prossimo, 43.8 nel 2021/22, ultima stagione
garantita e senza opzioni). E con quello convincere George a restare oltre la
scadenza contrattuale del prossimo 30 giugno. Con queste due firme – una c’è
già stata, dell’altra si parlerà per intere settimane – si regalerebbero altri
cinque anni almeno ad alto livello anche se non necessariamente da titolo.
Superbasket, Michael Jordan, Planinic e altro: l'intervista di Giancarlo Migliola
sabato 21 aprile 2018
New York Basketball Stories 2.0: le origini di Kyrie
Drederick Irving un giorno disse ai due figli, Asia e Kyrie, che avrebbero
dovuto ricevere dalla vita più di quanto aveva avuto lui. Non era una grande
dichiarazione. Drederick Irving veniva da un ghetto del Bronx, viveva nei Mitchel
Projects, la madre gestiva due lavori per mantenere da sola sei figli perché il
padre se ne andò senza avvertire nessuno quando Drederick aveva sei anni.
Peggio di così, sarebbe stato difficile. Drederick e i suoi vivevano con il
welfare, non avevano nulla. Tranne il basket.
mercoledì 18 aprile 2018
A proposito del nuovo allenatore dei Knicks
Durante la stagione 1994/95, la sua quarta a New York, Pat
Riley chiese alla proprietà potere esecutivo su tutta la parte cestistica
dell’organizzazione. Ma i Knicks erano nel mezzo di un cambio di proprietà e
sono sempre stati una questione di equilibrismi, politica, potere. Riley non
ebbe risposta e cominciò segretamente a trattare con Miami. A fine stagione, si
dimise con un anno di contratto restante e si trasferì a South Beach. Gli Heat
dovettero ricompensare New York per schivare sanzioni. Riley ebbe da Micky
Arison quello che voleva. Sarebbero seguiti oltre 20 anni di gestione che hanno
prodotto tra le altre cose: tre titoli NBA, cinque finali, una galleria di
fenomeni che comprende LeBron James, Dwyane Wade, Alonzo Mourning, Chris Bosh,
Tim Hardaway e Shaquille O’Neal. Questi quasi 25 anni – ovviamente sarebbero cambiate molte
dinamiche – avrebbero potuto essere i 25 anni dei Knicks che tra l’altro nel
1995 erano molto più avanti di quanto lo fosse Miami nello sviluppo della
squadra. Anzi erano competitivi per vincere subito e infatti lo sarebbero stati
– senza Pat Riley – per altri cinque o sei anni (giocarono la Finale nel 1999,
persero la finale di conference nel 2000).
lunedì 16 aprile 2018
NBA Finals 1990-1999: la battaglia dei tre overtime a Chicago
Lo Chicago Stadium aveva
quasi 70 anni quando ospitò la terza Finale NBA della sua gloriosa storia.
Nacque come arena dedicata all’hockey su ghiaccio e mostrava, nel 1993, tutti
gli anni che aveva. Al di là della strada, era già in piedi il cantiere per la
costruzione dello United Center che avrebbe debuttato nella stagione 1994/95.
Lo Stadium non aveva le suite, gli spogliatoi somigliavano a scantinati, la
stampa prima della partita cenava in un luogo tetro. Poi i tavoli venivano
rimossi, sostituiti da una lunga fila di sedie asportabili e la stanza si
trasformava nel luogo deputato alle interviste post partita. Per accedere al
campo di gioco bisognava attraversare un tunnel strettissimo, salire lungo
scale pericolanti e infine accedere al tempio. Lo Stadium era decadente. Quindi
era bellissimo.
venerdì 13 aprile 2018
Allenatore dell'anno: otto candidati e un solo Brad Stevens
Non c’è mai stata probabilmente nella storia della NBA una
stagione con tanti allenatori meritevoli del trofeo di Coach dell’anno. E’
legittimo considerare candidati in nessun particolare ordine: Brad Stevens
(Boston), Dwane Casey (Toronto), Brett Brown (Philadelphia), Nate McMillan
(Indiana), Mike D’Antoni (Houston), Gregg Popovich (San Antonio), Terry Stotts
(Portland) e Quin Snyder (Utah). C’è un modo interessante, nell’era dei dati
analitici ormai di uso comune in America, per decifrare il rendimento di una
squadra: paragonare il numero di vittorie effettivo al numero di vittorie
preventivate a inizio stagione dai siti specializzati. Ad esempio di questi
otto allenatori, solo Popovich ha vinto meno partite (47 contro 53) del
preventivato; Stevens a Boston è andato pari. Gli altri ne hanno vinte in media
una decina in più.
martedì 10 aprile 2018
MVP Review: la vittoria di Harden e il check-up di tutte le candidature (All in One)
La corsa al titolo di MVP non è stata appassionante come un
anno fa quando il mondo si era diviso tra Russell Westbrook, James Harden e nel
finale prese quota la candidatura di Kawhi Leonard. Quest’anno Harden vincerà
con largo margine sul secondo classificato ed esiste una piccola possibilità
che come Steph Curry due anni fa vinca il titolo all’unanimità. Può starci:
Harden è il miglior giocatore della miglior squadra della stagione, quella che
ha stabilito il nuovo record franchigia di vittorie, ed è il miglior
realizzatore della Lega, oltre i 30 di media. Quest’anno Harden figurerà per il
quarto anno consecutivo nel primo quintetto All-NBA e in passato è arrivato due
volte secondo nella corsa all’MVP.
lunedì 9 aprile 2018
MVP Review: l'interminabile LeBron e i quintetti All-NBA
LeBron James aveva cominciato questa stagione con l'atteggiamento di un uomo in missione. Sembrava volesse appropriarsi per acclamazione del titolo di MVP, un modo inequivocabile per mettere a tacere ogni argomento di discussione su chi sia il miglior giocatore del mondo o su un suo presunto declino. Le difficoltà di Cleveland, con la conseguente rivoluzione del roster, hanno determinato una sorta di passaggio a vuoto, anche mentale, attorno a metà stagione in cui James Harden nella percezione pubblica ha allungato decisamente, lasciandoselo alle spalle. Così probabilmente LeBron non sarà l'MVP della stagione. Non si aggiudica il trofeo dal 2014. Guardando all'età verrebbe da dire che è normale: superati i 33 anni, sarebbe legittimo si risparmiasse durante la regular season per dare il meglio nei playoffs. Non dimentichiamo che LeBron gioca la Finale ininterrottamente dal 2011 (sono sette di fila praticamente due anni di carriera supplementari).
mercoledì 4 aprile 2018
MVP Review: Anthony Davis è il prototipo del centro moderno
Considerato che i New Orleans Pelicans avrebbero dovuto
sparire dalla corsa ai playoffs nel momento stesso in cui hanno perso per
infortunio DeMarcus Cousins – i cui numeri restano sensazionali -, la stagione
di Anthony Davis – The Brow – è stata naturalmente stupefacente. Non è una
sorpresa: Davis è il capostipite della generazione dei centri che possono
difendere sul perimetro oltre che al ferro, attaccare dal palleggio oltre che
dentro l’area ed essere decentemente pericolosi da fuori. Vengono in mente Karl-Anthony
Towns e Joel Embiid. Tutti questi giocatori sono sempre considerati ibridi nel
senso che la tendenza è quella di accoppiarli a centri veri, teoricamente
deputati a svolgere un po’ di lavoro sporco e fisico, ma il rendimento
generalmente è migliore quando possono fare a meno di tale compagnia.
martedì 3 aprile 2018
MVP Review: Westbrook resta superbo ma OKC ha vinto troppo poco
Da un punto di vista strettamente individuale, nonostante i
ben noti difetti (tiro da tre sotto il 30 %, qualche volta resiste alla
tentazione di usarlo, spesso no, specie nei finali di gara, ma lui è così,
agonista anche nello sfidare i propri limiti) o la tendenza a esagerare, Russell
Westbrook potrebbe essere confermato MVP della stagione. Perché no? Chiuderà
molto vicino alla seconda tripla doppia media in carriera. Qualche rimbalzo qua
e qualche rimbalzo là e ce l’avrebbe fatta ancora. Ha vinto la classifica degli
assist così autorizzandosi a cedere a James Harden lo scettro di miglior
realizzatore della Lega. I Thunder accanto a lui sono cambiati tanto e hanno
inciso anche sulla sua stagione: ha tirato meno (soprattutto da tre), ha tirato
meglio (45 %), ha segnato meno perché è andato meno in lunetta, ha “usato” il
34.3% dei possessi di Oklahoma City contro il 41.7% di un anno fa, cifra
record. Ha assistito quasi il 50 % dei canestri segnati dai compagni con lui in
campo. Perché quindi Westbrook non dovrebbe essere l’MVP?
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