Più che disquisire sui tanti, troppi, tiri da tre che
Houston ha preso e sbagliato in gara 7, bisognerebbe capire quanto i Rockets abbiano
pagato le ridotte dimensioni della loro rotazione e coinvolgere la cronica
tendenza di Mike D’Antoni di utilizzare pochi giocatori spremendo i migliori o
i più fidati. Nelle partite importanti, D’Antoni ha usato una rotazione di
sette giocatori. Se questo abbia causato il calo vistoso della squadra nel
secondo tempo di gara 6 e 7, se questo sia uno dei motivi dell’infortunio di
Chris Paul – che di infortuni al momento sbagliato purtroppo ne ha avuto tanti
in carriera – non è dimostrabile né in un senso né in un altro. Ma di sicuro
questa stagione ha rinforzato alcuni concetti, tipo la necessità di proteggere
Paul durante la regular season (fatto già quest’anno ma forse bisognerà farlo
ancora di più) e trovare il sistema di aumentare il numero di giocatori fidati
su un mercato che per i Rockets comincia in salita.
Opinioni, analisi e i miei libri: il mondo del basket americano visto da me di Claudio Limardi
mercoledì 30 maggio 2018
A proposito di Houston e D'Antoni: la verità sul massiccio ricorso al tiro da tre
Nella gara più importante della sua vita di allenatore, ad
una vittoria dalla finale NBA, Mike D’Antoni è stato tradito macabramente
dall’arma attorno alla quale ha costruito la sua filosofia di gioco, ovvero il
tiro da tre. Houston in realtà era molto diversa dai Suns dei “Sette secondi o
meno”. Non erano una squadra ad altissimo numero di possessi e il tiro da tre
non nasceva dalla circolazione della palla ispirata da Steve Nash ma da uno
spinto utilizzo dell’uno contro uno che poi generava canestri al ferro (James
Harden), tiri liberi o tiri dalla media che non sarebbero previsti dal sistema
ma per Chris Paul sono equivalenti ad un lay-up. Ma nella gara più importante
della stagione, Houston ha sbagliato 27 tiri da tre consecutivi e perso contro
Golden State. Che in una serata orribile al tiro abbia perso di nove è solo un
altro aspetto della beffa.
lunedì 28 maggio 2018
Il superotto di LeBron James
La nona finale della carriera di LeBron James (eguagliato
Magic Johnson che ne vinse cinque) è anche l’ottava consecutiva. Ma mai era
arrivata partendo dal numero 4 del tabellone e con una squadra oggettivamente
così debole, dopo una stagione che ne ha racchiuse almeno tre in pochi mesi.
Solo nel 2007 quando non aveva ancora 23 anni l’approdo in finale poteva essere
considerato stupefacente come lo è adesso. I Cavaliers hanno cominciato questa
stagione perdendo Kyrie Irving, la seconda star della squadra, legittimamente
uno dei primi 10-12 giocatori di questa Lega; l’esperimento Isaiah Thomas è fallito;
affiancare a LeBron, in una specie di operazione nostalgia+amicizia, Dwyane
Wade è stato un altro fallimento. La rivoluzione di febbraio ha fatto
precipitare la squadra in classifica, afflitta da una difesa terribile e un’attitudine
spesso peggiore. La perla della rivoluzione, Rodney Hood, è fuori dalla
rotazione. Per arrivare in finale, Cleveland ha dovuto vincere due volte una
gara 7. Probabilmente Indiana meritava di avanzare più dei Cavaliers nel primo
turno; l’ostacolo più arduo, Toronto, si è rivelato un clamoroso bluff; Boston
ha avuto una stagione stupefacente ma l’accesso dei Celtics in finale era il
solo evento che avrebbe avuto addirittura meno senso, date le circostanze.
Boston, se avesse vinto gara 7, sarebbe entrata in finale con un record di 1-7
in trasferta nei playoff, due vittorie in gara 7 come Cleveland ma tutte e due
ottenute proteggendo il fattore campo. I Celtics meritavano la finale, per come
e dove sono arrivati senza i loro due migliori giocatori (e Dan Theis), ma
appunto avrebbe avuto meno senso di vedere qui LeBron, a tratti da solo.
NBA Finals 1990-1999: l'arrivo a Chicago di Dennis Rodman
Aveva solo tre anni,
Rodman, quando il padre Philander scappò di casa. Anni dopo si rifece vivo
informandolo che viveva nelle Filippine, faceva il manager di un ristorante, si
era risposato e aveva qualcosa come ventinove figli, o giù di lì. Un giorno
arrivò a Chicago e una radio privata cercò di favorire l’incrocio tra Dennis e
Philander ma senza successo. Rodman è cresciuto nei ghetti di Dallas in una
famiglia divenuta… femminile con le due sorelle maggiori, Kim e Debra, e la
madre Shirley, che per mantenere i figli svolgeva due lavori e trascorreva il
tempo libero (ammesso che ne avesse) suonando il piano in chiesa. Kim e Debra
diventarono due splendide giocatrici, quest’ultima vinse il titolo NCAA con
Louisiana Tech, la prima diventò All-America alla Stephen F.Austin University.
Quanto a Dennis, lo sport gli piaceva ma quando cercò di conquistare un posto
nella squadra di football della South Oak Cliff High School venne tagliato
perché di corporatura troppo esile. A basket veniva regolarmente sbeffeggiato
dalle sorelle, più alte, grosse e dotate di lui.
lunedì 21 maggio 2018
NBA Finals 1990-1999: il sogno di Clyde Drexler
Clyde Drexler non era più
felice di stare a Portland. Era stato quasi ceduto a Miami ma la prospettiva di
dover sottoporre la famiglia ad un lungo trasferimento per giocare in una
squadra mediocre non lo attraeva. Così decise di venire allo scoperto e
chiedere di essere scambiato ma solo ad una squadra di vertice, di suo
gradimento. In fondo, i Trail Blazers glielo dovevano.
venerdì 18 maggio 2018
NBA Finals 1990-1999: la leggenda di John Starks
John Starks veniva dall’Oklahoma,
cambiò quattro college, fece il magazziniere in un supermercato finché non si
convinse che aveva talento e non doveva sprecarlo tra scatoloni, scaffali e
lattine. Riuscì ad andare a Oklahoma State, vi giocò l’ultimo anno di college,
poi ebbe una chance NBA a Golden State ma lo tagliarono. Si rifugiò nella CBA e
infine arrivò la chiamata di New York, l’1 ottobre 1990. Il giorno in cui il
roster doveva essere ridotto a 12 uomini, capì che il suo destino era segnato.
Così decise di andar fuori ma a modo suo. Combattendo. In un’entrata trovò il
corpaccione di Ewing a sbarrargli la strada. Pensò di schiacciargli in testa.
In realtà cadde rovinosamente, si infortunò e i Knicks non poterono tagliarlo
per regolamento. Lo ricollocarono in lista infortunati. Guadagnò tempo.
mercoledì 16 maggio 2018
Philadelphia, da Simmons ad Embiid ai tiratori ora serve il passo più difficile
I playoffs smascherano fino alle estreme conseguenze la
reale consistenza di una squadra. Ora è probabile che sottoposti alla cura
tattica di Brad Stevens e dei Boston Celtics, i Sixers abbiano denunciato
limiti più evidenti di quelli reali. Ma è vero che contro una squadra priva di
due starter e un solido cambio come Dan Theis, priva in gara 1 di Jaylen Brown,
Philadelphia avrebbe potuto fare decisamente meglio di una onorevole ma inequivocabile
resa in cinque gare. Soprattutto pensando ai Sixers come alla prima alternativa
a est dei Celtics del prossimo quinquennio. Il che è già ovviamente un
clamoroso successo pensando alle premesse e al recente passato.
venerdì 11 maggio 2018
Brad Stevens: quando la nuova star dei playoffs è un allenatore
Non si era mai vista nella NBA un'edizione dei playoffs in cui la stella emergente non è stato un giocatore con buona pace di Donovan Mitchell, Jayson Tatum, Scary Terry Rozier, Embiid and Simmons, Oladipo, Clint Capela, ma un allenatore. Nemmeno gli eroismi di LeBron hanno cancellato l'odierna fissa mondiale per il coach dei Boston Celtics.
mercoledì 9 maggio 2018
New York ha fatto bene a prendere David Fizdale?
Sul mercato allenatori nella NBA sta accadendo qualcosa di interessante.
È scomparsa la figura dell'allenatore-star, affermato, quello che può
scegliere quale squadra allenare. Chi lo ha o pensa di averlo lo tiene
per molti anni come Gregg Popovich o Rick Carlisle. Chi l'ha trovato lo
blinda come Golden State con Steve Kerr o Boston con Brad Stevens (ma
l'elenco potrebbe allungarsi con Quin Snyder a Utah, Brett Brown a
Philadelphia). Le squadre che cambiano coach sono per lo più quelle di
bassa classifica e la nuova tendenza è quella di svolgere colloqui con
10-12 allenatori diversi, il classico casting che non significa non
avere idee chiare ma svolgere con grande attenzione la propria ricerca.
Persino Houston, che due anni fa ha scelto un coach affermato ed esperto
come Mike D'Antoni, ha prima "intervistato" una decina di altri
allenatori. Ma oggi normalmente sembra più facile avere una chance per
un assistente che per un ex capo.
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