Quando Olajuwon uscì per
la prima volta dal terminal dello Houston Hobby Airport era forte dei suoi 208
centimetri lungo i quali all’epoca non erano distribuiti più di 80 chili, il
frutto di un’alimentazione incompleta, riso sei volte alla settimana e poco
d’altro. Aveva in tasca l’indirizzo della University of Houston e un pacchetto
di banconote arrotolate e nascoste chissà dove. Fermò un taxi. Prese posto sul
sedile posteriore e con il suo accento africano colpì l’autista come un
fulmine. “Ehi ma tu sei nigeriano come me!”. Il primo contatto di Hakeem
Olajuwon con Houston fu subito fortunato, un segno del destino. Veniva da una
giornata spesa in aereo. Cinque università da visitare, la prima doveva essere
St.John’s, appena sbarcato a New York. Ma era l’ottobre del 1980 e appena mise
la testa fuori dal terminal del JFK nel Queens, una ventata gelida lo rispedì
all’interno. Andò subito al bancone del check-in e si fece anticipare il volo
per Houston, previsto due giorni più tardi. Ricordava che all’ambasciata
americana, dov’era andato per ottenere il visto d’ingresso negli Stati Uniti,
gli avevano detto che New York è freddissima l’inverno e che Houston, per lui
amante del caldo, sarebbe stata molto meglio. E poi Christopher Pond,
l’allenatore americano nato nel North Carolina ma con la vocazione del
missionario in valigia, che l’aveva scoperto ai Campionati Africani juniores
dove guidava il Centrafrica, gli aveva chiesto come favore personale di
considerare Houston prima di qualsiasi altra destinazione, vale a dire North
Carolina State, Georgia, St.John’s e Providence, insomma tutte quelle che
avevano accettato di dare uno sguardo a questo ragazzone di Lagos.