Era l’11 maggio del 1989. Le 2.10 di mattina, sulla 203rd street nella
sezione di St.Albans nel Queens. Daniels stava rientrando nell’appartamento
della nonna quando venne raggiunto da tre proiettili. Uno lo colpì al petto,
uno attraverso il lato destro del collo e un terzo alla spalla sinistra. Era un
regolamento di conti: Daniels, secondo gli aggressori, aveva rubato alcune
fiale di crack. La notizia della sparatoria fece il giro d’America soprattutto
a New York.
Opinioni, analisi e i miei libri: il mondo del basket americano visto da me di Claudio Limardi
sabato 30 luglio 2016
venerdì 29 luglio 2016
New York Basketball Stories 2.0: c'era una volta Lloyd Daniels
...Daniels tirava da ogni posizione, usava il tabellone
come se il pallone fosse telecomandato, portava palla come Magic Johnson e la
passava con un istinto stupefacente. Talento alla mano era un predestinato.
Dicono che al playground distruggesse regolarmente Rod Strickland, futura
stella NBA (New York, San Antonio, Portland) ma non era vero. “Ho giocato con
Rod una volta sola ed eravamo nella stessa squadra, la gente esagera”, fu la
sua ammissione. Come quando dissero di averlo visto fare un doppio 42, punti e
rimbalzi, nella stessa partita. “I rimbalzi erano 22”, fu la correzione.
giovedì 28 luglio 2016
Perché Amar'e Stoudemire appartiene ai Suns non ai Knicks
Amar'e Stoudemire ha chiesto di potersi ritirare a neanche 34 anni come
membro dei New York Knicks. È stato accontentato anche se non si era mai
ravvisato un suo tale livello di identificazione con la squadra di New York. Insomma
Stoudemire non è mai stato Patrick Ewing o Charles Oakley. Ma resta
curioso che sia successo, quando i suoi primi otto anni di carriera a
Phoenix sono stati certamente più significativi.
Nell'estate del 2010 Stoudemire era una delle grandi stelle disponibili sul mercato. I tre più richiesti andarono tutti a Miami (ovviamente LeBron, DWade, Chris Bosh). Stoudemire fu il premio di consolazione per i Knicks. Nessun altro club era disposto a dargli 100 milioni di dollari di contratto non assicurabile a causa delle condizioni crinicamente pessime delle ginocchia. Ma i Knicks non potevano restare a mani vuote e dovettero ingoiare il rospo sapendo che Amar'e non avrebbe mai dato più di due o tre anni di grande basket.
Nell'estate del 2010 Stoudemire era una delle grandi stelle disponibili sul mercato. I tre più richiesti andarono tutti a Miami (ovviamente LeBron, DWade, Chris Bosh). Stoudemire fu il premio di consolazione per i Knicks. Nessun altro club era disposto a dargli 100 milioni di dollari di contratto non assicurabile a causa delle condizioni crinicamente pessime delle ginocchia. Ma i Knicks non potevano restare a mani vuote e dovettero ingoiare il rospo sapendo che Amar'e non avrebbe mai dato più di due o tre anni di grande basket.
mercoledì 27 luglio 2016
New York Basketball Stories 2.0: Nate Archibald da South Bronx
Un rumore di sottofondo. Sempre più pressante. Un
brusio che in breve diventò un boato. "Tiny is here. Now the real fun is starting". Anni '70. L'attività
estiva a Rucker Park era al top dell'energia anche se allora era tutto
semiclandestino, le notizie si diffondevano con il passaparola e il consumismo
non si era impossessato ancora dei playground. Era tutto più affascinante. Nate
Archibald era un fedelissimo della scena estiva newyorkese. Che includeva
questo fantastico torneo tra squadre provenienti da diverse città d'America.
L'obiettivo era capire chi avesse la squadra di basket da strada
migliore. Il team di New York dipendeva da Archibald. Ma quella sera,
avversaria Chicago, Archibald era assente ingiustificato. Le cose andavano
male. Chicago era in controllo della partita. Più 13 nel cuore del secondo
tempo. Poi un brusio. Poi un boato. Infine un'esplosione. Tiny is here.
martedì 26 luglio 2016
Le analogie tra la scelta di Higuain e quella di Durant
C'è un incredibile livello di somiglianza tra il passaggio di Gonzalo Higuain alla Juventus e quello di Kevin Durant ai Golden State Warriors. Entrambi hanno optato per scelte strettamente professionali: sono andati semplicemente nella squadra che garantiva la situazione migliore. Migliore per loro. In questo caso non essendo una questione di soldi, ambedue hanno scelto di giocare nel club che offriva le migliori possibilità di vittoria.
lunedì 25 luglio 2016
New York Basketball Stories 2.0: Earl Manigault
Earl Manigault è stato così il giocatore di playground
più famoso della storia, non necessariamente perché sia stato il migliore –
quanti l’hanno visto giocare tra chi ne racconta le imprese? – ma perché
attorno a lui sono fiorite le leggende più accattivanti e perché la sua storia
presenta un tasso di drammaticità molto elevato. Inoltre la sua vita fu portata
alla luce da un libro famosissimo uscito nel 1971, “The City Game”, appunto, di
Pete Axthelm. Da quel momento non si può parlare di playground o di basket da
strada senza citare le gesta di Earl Manigault. L’ha fatto Rick Telander, con un
altro straordinario volume, “Heaven is a Playground”, l’hanno fatto Lars
Anderson e Chad Millman in “Pick Up Artists”. Su di lui è stato prodotto
persino un film, “Rebound”. E quando è morto, vinto da un cuore indebolito
dagli stravizi di gioventù, a 53 anni, la notizia ha fatto il giro del mondo ed
è finita su tutti i giornali di New York. E non solo…
Il sogno proibito di Boston: Butler, Horford e Durant
Danny Ainge costruì l'ultimo titolo NBA dei suoi Celtics in un'estate. Nel 2007 aveva in squadra Paul Pierce e il giovane Rajon Rondo. Convinse il primo a restare andando a prendere gli altri due. Il si di Ray Allen da free-agent era subordinato a quello di Kevin Garnett cui Minnesota aveva dato via libera ma sostanzialmente poteva scegliersi la propria squadra. Ainge sperava di poter fare qualcosa di simile quest'estate. Aveva Isaiah Thomas, voleva firmare Al Horford da free-agent e sfruttando la sua amicizia e la condivisione dell'agente ottenere Kevin Durant. Nel frattempo sperava di avere Jimmy Butler da Chicago via trade. Il quintetto dei sogni era Thomas, Butler, Durant, Horford e Kelly Olynik o Tyler Zeller o chiunque altro da centro. Per avere Butler avrebbe dovuto sacrificare numerosi degli assets accumulati nelle ultime stagioni. Non è chiaro ma è possibile che avrebbe dovuto rinunciare anche a giocatori che oggi fanno parte del "core" dei Celtics. Marcus Smart o Jae Crowder. Avery Bradley. O la scelta numero 3 di questo draft, Jaylen Brown.
sabato 23 luglio 2016
New York Basketball Stories 2.0: Kareem Abdul-Jabbar
Da "New York Basketball Stories 2.0", capitolo "Kareem".
"Stai giocando come un
negro". Jack Donohue, coach della Power Memorial Academy a Manhattan, non
era un razzista o quantomeno non ci sono motivi per pensare che lo fosse. Ma la
sua squadra, che sarebbe stata votata anni dopo come la migliore di sempre a
livello liceale, aveva pochi ragazzi di colore. Il migliore di tutti si
chiamava Lewis Alcindor e veniva dai projects di Dyckman Street, nella sezione
di Manhattan nota come Inwood, vicino ad Harlem. Era un predestinato. Altissimo
e coordinato. Un atleta. Alla St.Jude, la sua scuola elementare, era stato
immarcabile e quando arrivò a Power Memorial, adesso tristemente chiusa, era
già una piccola celebrità. Donohue usò quella frase per motivarlo dopo un primo
tempo opaco. Ma aveva superato il limite. Nella testa del giovane Alcindor
negli anni '60 quella era una frase che non poteva essere tollerata.
venerdì 22 luglio 2016
New York Basketball Stories 2.0: perché la nuova versione
Quando nell’ottobre 2015 tornai a New York con l'Olimpia Milano sentii Jamel McLean sospirare. "Non importa quante volte sei stato a New York perché è sempre come se fosse la prima". McLean è nato a Brooklyn. New York è davvero così. Una sorpresa continua. Cammini e senti parlare ogni lingua, incontri ogni tipo di persona e la metropolitana è quasi l'anello che congiunge uomini e donne dei più disparati strati sociali. Non esiste un luogo più di Times Square in cui un venerdì notte o un sabato sera puoi sentirti così al centro del mondo o nel cuore di tutto quello che succede. Cambiano i palazzi, chiudono negozi e ne aprono altri, ristoranti storici lasciano il posto a ristoranti nuovi. Catene di fast food e slow food. Librerie che vanno e che vengono. Ogni visita a New York scopri un mondo diverso. Immaginate nel basket: lo sport che distingue New York per la sua natura urbana, le sue origini di strada, la sua matrice afroamericana o anche solo perché i Knicks giocano al Madison Square Garden e quindi sono la squadra del mondo. La prima versione di questo libro era stato un atto di amore nei confronti della città. Era una New York ferita dall'attentato alle Torri Gemelle. Pochi mesi dopo, camminando una sera per Manhattan, ero stato avvolto da un groppo alla gola. Le strade erano deserte. La città triste. Non era una sera di punta, forse era addirittura un lunedì sera, ma non avevo mai visto New York così afflitta. Così abbattuta. Mi apparve quasi rassegnata e ovviamente non lo era. Certo guardavi sud e non vedevi più le Twin Towers, non belle ma imponenti. Troneggianti. Erano un punto di riferimento. Quel buco, in parte riempito, fa ancora male.
Ecco perché nella NBA di oggi ci sono soldi per tutti!
Mike Conley ha firmato quest’anno il contratto più alto
nella storia del basket NBA. 153 milioni di dollari in cinque anni per giocare
a Memphis. Può sembrare una follia ma non lo è necessariamente: Conley è una bandiera
e Memphis non è una destinazione per i free-agent. I Grizzlies i giocatori come
Conley devono tenerli e pagarli di conseguenza. Non sono rimpiazzabili. Solo
San Antonio – tra i club espressi da mercati piccoli – è riuscita dopo anni di
vittorie ad avere un certo successo tra i free-agent. Ovviamente il contratto
di Conley impressiona in un senso ma questa estate ha destato scalpore per
molti altri contratti. Qualcuno? Allen Crabbe è rimasto a Portland per 75
milioni in quattro anni: i Blazers hanno pareggiato l’offerta dei Brooklyn
Nets. Crabbe lo scorso anno ha segnato 10.3 punti a partita, dalla panchina.
Evan Fournier, francese, ha esteso con Orlando per 85 milioni in cinque anni.
Ha 23 anni e segnava 15.4 punti di media l’anno scorso. Il suo connazionale
Nicolas Batum ha firmato per il massimo salariale a Charlotte: 120 milioni in
cinque anni. Potrei andare avanti per molto alto toccando l’apice con i 64
milioni in quattro anni che Timofey Mozgov, virtualmente inutilizzato da
Cleveland in Finale. Prenderà dai Los Angeles Lakers. Il club che ha avuto come
centri George Mikan, Wilt Chamberlain, Kareem Abdul-Jabbar e Shaquille O’Neal,
praticamente quattro dei primi cinque o sei della storia (gli altri: Bill
Russell e Hakeem Olajuwon), paga 18 milioni all’anno Mozgov.
mercoledì 20 luglio 2016
Sixers tre anni da incubo per un Ben Simmons
Ben Simmons, la prima scelta assoluta dell'ultimo draft, è il frutto più evidente e ambito dell'ardita ricostruzione dei Philadelphia 76ers ideata, forzando i regolamenti o le storture del sistema, dall'ex general manager Sam Hinkie.
Chi segue la NBA con attenzione conosce probabilmente molto bene la storia recente dei Sixers e di Hinkie, uno dei più grandi sostenitori del movimento analitico che non significa pretendere tiro da tre ad oltranza, zero tiri dalla media e generalmente quintetti piccoli disinteressati ai rimbalzi d'attacco anche se sono principi base, i più comprensibili forse, di un movimento che è molto più questo. Hinkie - ex delfino di Daryl Morey a Houston - aveva portato avanti un'idea "The Process" che aveva bisogno di essere seguita con fede. Di qui lo slogan "Trust The Process". Considerato che la base di partenza era consegnarsi ad una serie imprecisata di stagioni perdenti per scegliere sempre in alto e cedere i giocatori attorno ai quali non era pensabile costruire nulla per accumulare scelte poi trasformabili in giocatori ambiti, il Processo di Hinkie è stato seguito molto più a lungo del preventivabile. I Sixers in tre anni hanno vinto 47 gare perdendone 199 al fine di rinforzare quella che Hinkie ha definito - nella sua lettera di dimissioni poco elegantemente girata ai media - "la vista più lunga dell'intera stanza".
Chi segue la NBA con attenzione conosce probabilmente molto bene la storia recente dei Sixers e di Hinkie, uno dei più grandi sostenitori del movimento analitico che non significa pretendere tiro da tre ad oltranza, zero tiri dalla media e generalmente quintetti piccoli disinteressati ai rimbalzi d'attacco anche se sono principi base, i più comprensibili forse, di un movimento che è molto più questo. Hinkie - ex delfino di Daryl Morey a Houston - aveva portato avanti un'idea "The Process" che aveva bisogno di essere seguita con fede. Di qui lo slogan "Trust The Process". Considerato che la base di partenza era consegnarsi ad una serie imprecisata di stagioni perdenti per scegliere sempre in alto e cedere i giocatori attorno ai quali non era pensabile costruire nulla per accumulare scelte poi trasformabili in giocatori ambiti, il Processo di Hinkie è stato seguito molto più a lungo del preventivabile. I Sixers in tre anni hanno vinto 47 gare perdendone 199 al fine di rinforzare quella che Hinkie ha definito - nella sua lettera di dimissioni poco elegantemente girata ai media - "la vista più lunga dell'intera stanza".
lunedì 18 luglio 2016
Perché il divorzio tra Dwyane Wade e Miami era diventato inevitabile
Pat Riley ha sempre cercato di creare all'interno delle proprie squadre una sorta di clima da noi contro tutti quelli che sono al di fuori del cerchio magico. Che fossero nemici veri e presunti. Ha fatto così fin da quando allenava i Lakers poi ha accentuato questo stile a New York e Miami. È una strategia che motiva il gruppo e lo unisce. La squadra è una famiglia, il resto sono nemici periferici come li chiama lui. Ma Pat Riley quando si tratta di inseguire uno scopo non si ferma davanti a nulla. Ed è normale che sia cosi. Per quanto abbiano creato un clima di amicizia e divertimento i Warriors non hanno esitato un istante a cancellare Bogut, Ezeli e Barnes quando hanno potuto prendere Durant. È normale. Inciso: Riley non allena Miami ma con Phil Jackson a New York è l'unico executive che rappresenta un club molto più del coach. Erick Spoelstra è un eccellente allenatore ma è una creatura di Riley. Non sarà mai se stesso finché gli Heat saranno la squadra di Riley.
sabato 16 luglio 2016
Luke Walton può essere il nuovo Riley per i Lakers?
Da tre anni i Los Angeles Lakers non giocano i playoffs.
Nella loro storia non era mai successo per tre anni di fila. Le 17
vittorie e 65 sconfitte dell’ultima stagione sono record negativo di
franchigia. I Lakers non sono abituati a perdere con questa
costanza. Jim Buss, il figlio del defunto leggendario Jerry Buss, si è
dato una
finestra di tre anni che scadono al termine della prossima stagione per
rimettere l’armata gialloviola sulla retta via. Altrimenti si farà da
parte,
ammetterà il proprio fallimento e lascerà il posto a qualcun altro
portandosi
dietro Mitch Kupchak, general manager storico, ex delfino e braccio
destro di
Jerry West. Questo è il piano ufficiale.
Ma la nuova stagione, cominciata in sostanza con il draft
del 23 giugno, rappresenta una sorta di anno zero per i Lakers. Non hanno più
la presenza alla fine diventata ingombrante di Kobe Bryant,
hanno un nuovo coach, tanti giovani e avevano/hanno una montagna di soldi spendibili,
persino troppi per una squadra che parte da troppo lontano per essere subito
pericolosa.
venerdì 15 luglio 2016
Davvero Tim Duncan è stato la miglior ala forte moderna?
Ricordo che ai tempi delle due Finali consecutive degli Utah
Jazz contro i Chicago Bulls si stava facendo largo la corrente di pensiero
secondo cui Karl Malone era da considerare la miglior ala forte nella storia
del basket. In realtà la legittima candidatura di Malone risentiva della
vecchia interpretazione del ruolo. Le migliori ali forte per molti anni erano stati
giocatori di fatica, fisici, grandi combattenti e rimbalzisti ma raramente
grandi giocatori. Il ruolo si è evoluto. Elvin Hayes, prodotto della Houston
University, è stato una delle migliori ali forti della storia. Bob McAdoo che
ha ottenuto però i migliori risultati di squadra quando si è trasferito ai
Lakers con un ruolo inferiore rispetto a quello dominante – ma perdente – degli
anni di Buffalo e New York. Spencer Haywood a Seattle. Ancora prima Dave
Debusschere a New York che era un giocatore moderno perché oltre ad essere un
ruvido rimbalzista e un difensore era anche un eccellente tiratore. Ce ne sono
stati altri. Poi all’inizio degli anni ’80 ci sono stati Larry Bird – ma la sua
carriera è stata spesa soprattutto all’ala piccola, oggi probabilmente non
potrebbe farlo – e Kevin McHale.
mercoledì 13 luglio 2016
Ora Russell Westbrook ha in mano il futuro di Oklahoma City
E adesso Russell Westbrook deve prendere la decisione che potrebbe definirne la carriera. Dovesse lasciare Oklahoma City nessuno potrebbe accusarlo di alto tradimento: giocava in una squadra da titolo e all'improvviso si è trovato a capitanare un gruppo di giocatori giovani e futuribili ma lontani anni dal ritornare dov'erano il 4 luglio. Non è solo questo. Con Westbrook, Victor Oladipo e Steven Adams a bordo, Oklahoma City non sarà mai così scarsa da scegliere abbastanza in alto da assicurarsi um simil Durant. E non è una destinazione ambita dai free-agent. Oklahoma City è in un territorio di mezzo che può essere accettabile in generale meno quando dal 2012 puntavi a vincere il titolo e avevi la possibilità di farlo per altri cinque o sei anni almeno.
martedì 12 luglio 2016
Perché Derrick Rose a New York non sarà un autogol
Bisogna prima di tutto ricordare che ogni scambio NBA non è
mai solo una questione tecnica. Ci sono sempre implicazioni salariali, piani
futuri da ricordare. Perché a prima vista la decisione dei New York Knicks di
puntare su Derrick Rose sembra molto simile a quelle maturate a loro tempo di
puntare su Steve Francis, Baron Davis, Jason Kidd o – per uscire dal rango dei
playmaker – su Tracy McGrady o persino Penny Hardaway. Siamo solo un gradino
meglio, visto che parliamo comunque di un giocatore di 27 anni da 16.4 punti di
media nell’ultima stagione.
In realtà va riconosciuto a Phil Jackson di non aver mai seguito la strada del “fuoricampo” a basi piene puntando su un giocatore di nome e ovvio talento a costo di sacrificare il futuro e alzando il livello del rischio fino ad altezze inaudite. Derrick Rose ha un anno di contratto a circa 21 milioni di dollari. Se dovesse andare male, non verrebbe confermato e i Knicks aprirebbero una voragine di soldi sotto il salary cap in un mercato – quello del 2017 – nel quale non mancheranno le star cui offrirli. Russell Westbrook prima di tutti (peraltro al momento la forza dei Knicks è limitata: Kevin Durant non li ha neanche ricevuti). Se dovesse andare in un certo modo potrebbero provare a estenderlo a meno soldi per attirare altri free-agent. Onestamente, è stata una mossa condivisibile.
In realtà va riconosciuto a Phil Jackson di non aver mai seguito la strada del “fuoricampo” a basi piene puntando su un giocatore di nome e ovvio talento a costo di sacrificare il futuro e alzando il livello del rischio fino ad altezze inaudite. Derrick Rose ha un anno di contratto a circa 21 milioni di dollari. Se dovesse andare male, non verrebbe confermato e i Knicks aprirebbero una voragine di soldi sotto il salary cap in un mercato – quello del 2017 – nel quale non mancheranno le star cui offrirli. Russell Westbrook prima di tutti (peraltro al momento la forza dei Knicks è limitata: Kevin Durant non li ha neanche ricevuti). Se dovesse andare in un certo modo potrebbero provare a estenderlo a meno soldi per attirare altri free-agent. Onestamente, è stata una mossa condivisibile.
lunedì 11 luglio 2016
La dinastia degli Spurs di Duncan nacque da un infortunio
Era la stagione 1996-97. Gregg Popovich era il general manager dei San Antonio Spurs. Pensate a cosa è oggi Popovich e togliete il 90%. Popovich era un ex assistente allenatore che aveva lavorato per Larry Brown a San Antonio e Don Nelson a Golden State reinventandosi general manager. Gli Spurs avevano rinunciato al mal di testa Dennis Rodman trasformando i Bulls in una squadra imbattibile senza ricavarne alcun beneficio. Nella stagione 1996-97 vinsero appena 20 partite, il coach Bob Hill - quello che era stato a Bologna - fu licenziato dopo 18 gare di cui 15 perse. Popovich si autonominò capo allenatore ma fece 17-47. Sui media venne aspramente criticato. Il licenziamento di Hill venne considerato un atto di opportunismo e irriconoscenza. Ma la verità è che gli Spurs vinsero 20 partite perché David Robinson era infortunato e ne giocò appena 6. Sean Elliott ne giocò meno della metà. Erano i due migliori giocatori della squadra.
domenica 10 luglio 2016
Mike D'Antoni: Houston è la nuova sfida del Rivoluzionario
A 65 anni di età Mike D’Antoni si gioca a Houston
probabilmente l’ultima chance di portare a termine un ultimo grande progetto
nella NBA. I Rockets sono una “first-class organization”, determinati a
vincere, strutturati, moderni. Il general manager Daryl Morey è un fanatico
delle statistiche avanzate, a suo modo un precursore. Ha impostato tutta l’organizzazione
su queste convinzioni con risultati che finora sono stati buoni anche se non ottimi.
Il massimo è stato una finale di conference persa 4-1 contro Golden State nel
2015. L’ultimo anno è stato un passo indietro, nei risultati, nello sviluppo
del sistema, nella credibilità.
I Rockets hanno sempre avuto stabilità sotto la leadership
del proprietario Les Alexander. Rudy Tomjanovich è stato l’allenatore dei due
titoli. Poi ci sono stati Jeff Van Gundy, Rick Adelman e Kevin McHale. Tutti al loro posto
per almeno quattro anni. Van Gundy per settimane è stato considerato il grande
favorito: aveva lasciato un buon ricordo e il lavoro televisivo ha incrementato
la sua popolarità. Ma alla fine, dopo una lunga lista di candidati “intervistati”
ha vinto D’Antoni.
venerdì 8 luglio 2016
Ma i Warriors di Durant sono davvero imbattibili?
È bastato un tweet a Kevin Durant. Un tweet per cambiare tantissime cose. Probabilmente pur
diventando il giocatore più pagato dei Warriors - ma Steph Curry si
riprenderà lo scettro l'estate prossima - scegliendo Golden State ha
sacrificato il proprio ruolo nella storia del gioco perché
i titoli che presumibilmente vincerà saranno comunque titoli di gruppo.
Possibile che non diventi mai il giocatore di riferimento dei Warriors e
di sicuro non ne sarà mai il volto. Attenti però a non sottovalutarlo:
Durant è un sette piedi che gioca come una guardia ma con tutti i
vantaggi di essere cosi alto e avere braccia lunghissime. Quindi magari
farà incetta di titoli da MVP, non sarà il volto dei Warriors ma sarà lo stesso riconosciuto come il giocatore più forte della Lega. Ma non è questo l'effetto più dirompente della sua
firma: il fatto è che ha eliminato l'avversario più temuto dai Warriors, Oklahoma City, il
più pericoloso a ovest di sicuro (a est ovviamente c'è sempre un problema chiamato LeBron). Non c'è una squadra adesso che possa davvero
superare i Warriors, non con Durant a bordo.
lunedì 4 luglio 2016
Dentro la sconvolgente scelta di Kevin Durant
Adesso tante frasi pronunciate da Kevin Durant negli ultimi mesi assumono un significato diverso. Aveva detto che si era stancato di arrivare secondo, di essere il numero 2. Aveva anche difeso Kobe Bryant dalla critica che per anni l'aveva maltrattato salvo osannarlo nel momento della debolezza, del ritiro. Quasi anticipasse l'ondata di critiche che lo sta colpendo in queste ore. È tutto molto strano: nel 2010 mentre LeBron James umiliava Cleveland in uno speciale televisivo improvvisato per annunciare la grande fuga verso South Beach, Durant rifirmava silenziosamente con Oklahoma City conquistandosi consensi e accentuando la differenza comportamentale. Kevin Durant a Golden State fa impressione davvero. È una generazione di giocatori differente, che ragiona e pensa diversamente. Certe scelte oggi dibattute, magari criticate, una volta non facevano neppure parte del mondo reale. Nessuno ha mai pensato che Magic Johnson potesse andare a Boston e rendere imbattibili i Celtics degli anni '80. O che Michael Jordan non riuscendo a battere i Pistons potesse andare a giocare per loro. Oggi ci sta tutto.
LeBron James in Finale: più grande anche di Kobe e MJ?
La mostruosa Finale NBA giocata da LeBron James ha
restituito al 23 dei Cleveland Cavaliers il ruolo di giocatore numero 1 al
mondo, lo scettro che Stephen Curry gli aveva strappato nelle ultime due
stagioni. Ma soprattutto ha cancellato la sinistra percezione che LeBron sia
sempre rimasto un gradino al di sotto del proprio potenziale nelle grandi
partite. I famosi “haters”, cui ha dedicato un sentito post su Instagram dopo
la Finale, hanno sempre sventolatoa sostegno di questa tesi tre serie
consecutive tra il 2008 e il 2010 in cui i Cavs persero due volte con Boston e
una volta con Orlando fallendo il ritorno in Finale dopo l’apparizione precoce
del 2007 (in cui persero peraltro 4-0 contro San Antonio, in una delle due finali
meno combattute del nuovo secolo: l’altra fu Lakers-Nets nel 2002). Sulle
ceneri dell’eliminazione del 2010 contro i Celtics, LeBron lasciò Cleveland per
andare a Miami, un’altra mossa aspramente criticata.
venerdì 1 luglio 2016
Il Kevin Durant derby nei dettagli
Era dal 2010, anno di "The Decision" che un imminente free-agent non riceveva tante morbose attenzioni. In quei giorni Kevin Durant con una mossa di grande popolarità annunciò l'estensione del contratto con Oklahoma City rendendo stridente il contrasto tra il suo silenzioso rinnovo con un club espresso da un piccolo mercato e il comportamento da star planetaria e un po' egoista che aveva generato la fuga di LeBron James verso South Beach. In queste ore sei squadre si sono messe in fila per convincerlo. Inclusa la sua squadra attuale, la prima a incontrarlo, prima che la free-agency si aprisse ufficialmente tanto non sui soldi decide comunque lui.
Kevin Durant ha motivi sia cestistici che economici per restare ai Thunder. Nessuno ad esempio può pagarlo tanto: decidesse di legarsi subito a OKC potrebbe firmare un quinquennale e guadagnare circa 50 milioni di dollari in più di quanti ne percepirebbe firmando per un'altra squadra. Se firmasse - la soluzione più logica e remunerativa - un contratto annuale con opzione sul secondo anno riceverebbe circa 26 milioni di dollari per la prossima stagione (il salary cap non è stato ancora definito con esattezza) e un surplus di circa 53 milioni rispetto a quanto incasserebbe in un'altra squadra nell'arco di vita del nuovo contratto. E comunque resterebbe nell'unico club che conosce e al momento gli offre una delle migliori probabilità di vincere il titolo prima che la caccia diventi un'ossessione.
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