Joe Lacob aveva
rilasciato una dichiarazione che sembrava già una minaccia. Nei minuti
successivi di gara 7 aveva detto che i Golden State Warriors sarebbero stati
estremamente aggressivi sul mercato per migliorare ulteriormente la squadra,
anche sull’onda della delusione. Quella dichiarazione d’intenti, suffragata
dalla successiva firma di Kevin Durant, è stata un segnale. I Golden State
Warriors hanno raggiunto uno status che nella loro storia non avevano mai, mai,
neppure avvicinato. Sono una franchigia modello, cui nessuno dice no a priori.
Opinioni, analisi e i miei libri: il mondo del basket americano visto da me di Claudio Limardi
sabato 9 giugno 2018
martedì 5 giugno 2018
NBA Finals 1990-1999: quando Steve Kerr diventò l'eroe dell'ultimo tiro
Nella NBA era sempre
stato considerato una mezza figura. Phoenix lo scelse perché era un idolo
locale; a Cleveland ebbe poco spazio e quando fu ceduto a Orlando gli dissero
che in Florida avrebbe finalmente potuto ampliare il proprio gioco. Provvisto
di grande “sense of humor”, intelligente, umile, modesto, commentò che non
aveva capito si riferissero al golf, piuttosto che al basket. Ma nel triangolo
dei Bulls, Steve Kerr aveva trovato lo scenario giusto per emergere. Nella Finale del
1996 era stato dignitoso, in quella del 1997 era rimasto al di sotto del suo
standard. In gara 4 aveva sbagliato il tiro più importante, uno di quelli che
avevano permesso a Stockton di scatenarsi. Dopo quell’errore era entrato in una
fase di totale sconforto che aveva preoccupato la moglie Margot al punto da
spingerla a far visita a Michael Jordan prima del rientro a Chicago per
chiedergli di aiutare il marito se se ne fosse presentata l’occasione.
venerdì 1 giugno 2018
La chiamata Durant/LeBron invertita con la scusa dell'instant-replay
La chiamata invertita, prima sfondamento di Kevin Durant poi fallo di LeBron James, non ha vinto la partita per i Golden State Warriors ma di sicuro ha impedito che la perdessero. La chiave è in una regola poco nota istituita nel 2012/13: consente agli arbitri, una volta optato per l'uso del replay, al fine di valutare la posizione del difensore (dentro o fuori il semicerchio?), di verificare successivamente se la chiamata fosse o meno corretta. Nei fatti si tratta di usare la tecnologia per correggere un ipotetico errore tecnico. Più che instant-replay può chiamarsi arbitraggio elettronico.
mercoledì 30 maggio 2018
Come può Houston tenere Paul, Capela e migliorare lo stesso?
Più che disquisire sui tanti, troppi, tiri da tre che
Houston ha preso e sbagliato in gara 7, bisognerebbe capire quanto i Rockets abbiano
pagato le ridotte dimensioni della loro rotazione e coinvolgere la cronica
tendenza di Mike D’Antoni di utilizzare pochi giocatori spremendo i migliori o
i più fidati. Nelle partite importanti, D’Antoni ha usato una rotazione di
sette giocatori. Se questo abbia causato il calo vistoso della squadra nel
secondo tempo di gara 6 e 7, se questo sia uno dei motivi dell’infortunio di
Chris Paul – che di infortuni al momento sbagliato purtroppo ne ha avuto tanti
in carriera – non è dimostrabile né in un senso né in un altro. Ma di sicuro
questa stagione ha rinforzato alcuni concetti, tipo la necessità di proteggere
Paul durante la regular season (fatto già quest’anno ma forse bisognerà farlo
ancora di più) e trovare il sistema di aumentare il numero di giocatori fidati
su un mercato che per i Rockets comincia in salita.
A proposito di Houston e D'Antoni: la verità sul massiccio ricorso al tiro da tre
Nella gara più importante della sua vita di allenatore, ad
una vittoria dalla finale NBA, Mike D’Antoni è stato tradito macabramente
dall’arma attorno alla quale ha costruito la sua filosofia di gioco, ovvero il
tiro da tre. Houston in realtà era molto diversa dai Suns dei “Sette secondi o
meno”. Non erano una squadra ad altissimo numero di possessi e il tiro da tre
non nasceva dalla circolazione della palla ispirata da Steve Nash ma da uno
spinto utilizzo dell’uno contro uno che poi generava canestri al ferro (James
Harden), tiri liberi o tiri dalla media che non sarebbero previsti dal sistema
ma per Chris Paul sono equivalenti ad un lay-up. Ma nella gara più importante
della stagione, Houston ha sbagliato 27 tiri da tre consecutivi e perso contro
Golden State. Che in una serata orribile al tiro abbia perso di nove è solo un
altro aspetto della beffa.
lunedì 28 maggio 2018
Il superotto di LeBron James
La nona finale della carriera di LeBron James (eguagliato
Magic Johnson che ne vinse cinque) è anche l’ottava consecutiva. Ma mai era
arrivata partendo dal numero 4 del tabellone e con una squadra oggettivamente
così debole, dopo una stagione che ne ha racchiuse almeno tre in pochi mesi.
Solo nel 2007 quando non aveva ancora 23 anni l’approdo in finale poteva essere
considerato stupefacente come lo è adesso. I Cavaliers hanno cominciato questa
stagione perdendo Kyrie Irving, la seconda star della squadra, legittimamente
uno dei primi 10-12 giocatori di questa Lega; l’esperimento Isaiah Thomas è fallito;
affiancare a LeBron, in una specie di operazione nostalgia+amicizia, Dwyane
Wade è stato un altro fallimento. La rivoluzione di febbraio ha fatto
precipitare la squadra in classifica, afflitta da una difesa terribile e un’attitudine
spesso peggiore. La perla della rivoluzione, Rodney Hood, è fuori dalla
rotazione. Per arrivare in finale, Cleveland ha dovuto vincere due volte una
gara 7. Probabilmente Indiana meritava di avanzare più dei Cavaliers nel primo
turno; l’ostacolo più arduo, Toronto, si è rivelato un clamoroso bluff; Boston
ha avuto una stagione stupefacente ma l’accesso dei Celtics in finale era il
solo evento che avrebbe avuto addirittura meno senso, date le circostanze.
Boston, se avesse vinto gara 7, sarebbe entrata in finale con un record di 1-7
in trasferta nei playoff, due vittorie in gara 7 come Cleveland ma tutte e due
ottenute proteggendo il fattore campo. I Celtics meritavano la finale, per come
e dove sono arrivati senza i loro due migliori giocatori (e Dan Theis), ma
appunto avrebbe avuto meno senso di vedere qui LeBron, a tratti da solo.
NBA Finals 1990-1999: l'arrivo a Chicago di Dennis Rodman
Aveva solo tre anni,
Rodman, quando il padre Philander scappò di casa. Anni dopo si rifece vivo
informandolo che viveva nelle Filippine, faceva il manager di un ristorante, si
era risposato e aveva qualcosa come ventinove figli, o giù di lì. Un giorno
arrivò a Chicago e una radio privata cercò di favorire l’incrocio tra Dennis e
Philander ma senza successo. Rodman è cresciuto nei ghetti di Dallas in una
famiglia divenuta… femminile con le due sorelle maggiori, Kim e Debra, e la
madre Shirley, che per mantenere i figli svolgeva due lavori e trascorreva il
tempo libero (ammesso che ne avesse) suonando il piano in chiesa. Kim e Debra
diventarono due splendide giocatrici, quest’ultima vinse il titolo NCAA con
Louisiana Tech, la prima diventò All-America alla Stephen F.Austin University.
Quanto a Dennis, lo sport gli piaceva ma quando cercò di conquistare un posto
nella squadra di football della South Oak Cliff High School venne tagliato
perché di corporatura troppo esile. A basket veniva regolarmente sbeffeggiato
dalle sorelle, più alte, grosse e dotate di lui.
lunedì 21 maggio 2018
NBA Finals 1990-1999: il sogno di Clyde Drexler
Clyde Drexler non era più
felice di stare a Portland. Era stato quasi ceduto a Miami ma la prospettiva di
dover sottoporre la famiglia ad un lungo trasferimento per giocare in una
squadra mediocre non lo attraeva. Così decise di venire allo scoperto e
chiedere di essere scambiato ma solo ad una squadra di vertice, di suo
gradimento. In fondo, i Trail Blazers glielo dovevano.
venerdì 18 maggio 2018
NBA Finals 1990-1999: la leggenda di John Starks
John Starks veniva dall’Oklahoma,
cambiò quattro college, fece il magazziniere in un supermercato finché non si
convinse che aveva talento e non doveva sprecarlo tra scatoloni, scaffali e
lattine. Riuscì ad andare a Oklahoma State, vi giocò l’ultimo anno di college,
poi ebbe una chance NBA a Golden State ma lo tagliarono. Si rifugiò nella CBA e
infine arrivò la chiamata di New York, l’1 ottobre 1990. Il giorno in cui il
roster doveva essere ridotto a 12 uomini, capì che il suo destino era segnato.
Così decise di andar fuori ma a modo suo. Combattendo. In un’entrata trovò il
corpaccione di Ewing a sbarrargli la strada. Pensò di schiacciargli in testa.
In realtà cadde rovinosamente, si infortunò e i Knicks non poterono tagliarlo
per regolamento. Lo ricollocarono in lista infortunati. Guadagnò tempo.
mercoledì 16 maggio 2018
Philadelphia, da Simmons ad Embiid ai tiratori ora serve il passo più difficile
I playoffs smascherano fino alle estreme conseguenze la
reale consistenza di una squadra. Ora è probabile che sottoposti alla cura
tattica di Brad Stevens e dei Boston Celtics, i Sixers abbiano denunciato
limiti più evidenti di quelli reali. Ma è vero che contro una squadra priva di
due starter e un solido cambio come Dan Theis, priva in gara 1 di Jaylen Brown,
Philadelphia avrebbe potuto fare decisamente meglio di una onorevole ma inequivocabile
resa in cinque gare. Soprattutto pensando ai Sixers come alla prima alternativa
a est dei Celtics del prossimo quinquennio. Il che è già ovviamente un
clamoroso successo pensando alle premesse e al recente passato.
venerdì 11 maggio 2018
Brad Stevens: quando la nuova star dei playoffs è un allenatore
Non si era mai vista nella NBA un'edizione dei playoffs in cui la stella emergente non è stato un giocatore con buona pace di Donovan Mitchell, Jayson Tatum, Scary Terry Rozier, Embiid and Simmons, Oladipo, Clint Capela, ma un allenatore. Nemmeno gli eroismi di LeBron hanno cancellato l'odierna fissa mondiale per il coach dei Boston Celtics.
mercoledì 9 maggio 2018
New York ha fatto bene a prendere David Fizdale?
Sul mercato allenatori nella NBA sta accadendo qualcosa di interessante.
È scomparsa la figura dell'allenatore-star, affermato, quello che può
scegliere quale squadra allenare. Chi lo ha o pensa di averlo lo tiene
per molti anni come Gregg Popovich o Rick Carlisle. Chi l'ha trovato lo
blinda come Golden State con Steve Kerr o Boston con Brad Stevens (ma
l'elenco potrebbe allungarsi con Quin Snyder a Utah, Brett Brown a
Philadelphia). Le squadre che cambiano coach sono per lo più quelle di
bassa classifica e la nuova tendenza è quella di svolgere colloqui con
10-12 allenatori diversi, il classico casting che non significa non
avere idee chiare ma svolgere con grande attenzione la propria ricerca.
Persino Houston, che due anni fa ha scelto un coach affermato ed esperto
come Mike D'Antoni, ha prima "intervistato" una decina di altri
allenatori. Ma oggi normalmente sembra più facile avere una chance per
un assistente che per un ex capo.
lunedì 30 aprile 2018
Antetokounmpo: il dubbio è che non sia una prima punta
Giannis Antetokounmpo andrà a scadenza di contratto nel
2021. Significa che fortunatamente i Milwaukee Bucks hanno ancora tre anni per
convincerlo a spendere la parte più importante della sua carriera nel
Wisconsin. Kareem Abdul-Jabbar un giorno disse che lo stile di vita di
Milwaukee – Harley-Davidson a parte – non si adattava al suo. Abdul-Jabbar è
stato il più grande giocatore nella storia della franchigia e il motivo dell’unico
titolo che abbiano mai vinto. Ceduto lui ai Lakers, non sono più tornati in
finale anche se hanno avuto buoni momenti e grandi giocatori. Marques Johnson e
Sidney Moncrief erano le stelle negli anni ’80 quando i Bucks erano la terza
forza all’est dopo Boston e Philadelphia; poi c’è stata la squadra di Ray Allen
e Glenn Robinson che arrivò ad una partita dalla fine del 2001. Ma
individualmente Giannis è il più grande giocatore che abbia mai giocato nei
Bucks dopo Abdul-Jabbar e ricordando che Oscar Robertson trascorse a Milwaukee
la parte terminale della propria carriera. Ma Antetokounmpo – uomo franchigia –
rischia di diventare per i Bucks quello che Anthony Davis è per i Pelicans. Una
star troppo grande per tenerla confinata in eterno in un mercato così piccolo
se il cast di supporto, come lo chiamava Michael Jordan, non sarà da titolo.
sabato 28 aprile 2018
Ma questo di Rudy Gobert non era un fallo sul tiro da tre?
E’ molto italiano parlare del “non fallo” di Rudy Gobert su
Paul George. Se anche fosse stato chiamato un imbarazzante George avrebbe
dovuto andare sulla linea e fare 3/3 per portare la sfida al supplementare (in
realtà Utah avrebbe avuto un’altra opportunità). In queste ultime gare di
playoffs ci sono state tantissime chiamate controverse, il goal-tending di
LeBron James su Victor Oladipo, i 24 secondi non chiamati ad Al Horford che
hanno aiutato i Celtics a vincere gara 5 su Milwaukee ad esempio. La NBA spiega
tutto e ha spiegato anche la non chiamata di Ron Garretson, arbitro
espertissimo e figlio di Darrell Garretson, forse il più grande arbitro di
tutti i tempi, ma il problema resta e forse potrebbe generare altre riflessioni
sulla natura stessa del basket.
Il fallimento di OKC, Westbrook come Iverson e uno scambio di troppo
Tornassero indietro a OKC rifarebbero esattamente le stesse
mosse che hanno caratterizzato la scorsa estate. La “trade” per Paul George e
infine anche quella per Carmelo Anthony avevano un fine: restituire ai Thunder
un ruolo da potenziale contendente per il titolo per poter offrire a Russell
Westbrook motivi non solo economici per firmare un contratto mostruoso a lunga
scadenza (35 milioni l’anno prossimo, 43.8 nel 2021/22, ultima stagione
garantita e senza opzioni). E con quello convincere George a restare oltre la
scadenza contrattuale del prossimo 30 giugno. Con queste due firme – una c’è
già stata, dell’altra si parlerà per intere settimane – si regalerebbero altri
cinque anni almeno ad alto livello anche se non necessariamente da titolo.
Superbasket, Michael Jordan, Planinic e altro: l'intervista di Giancarlo Migliola
sabato 21 aprile 2018
New York Basketball Stories 2.0: le origini di Kyrie
Drederick Irving un giorno disse ai due figli, Asia e Kyrie, che avrebbero
dovuto ricevere dalla vita più di quanto aveva avuto lui. Non era una grande
dichiarazione. Drederick Irving veniva da un ghetto del Bronx, viveva nei Mitchel
Projects, la madre gestiva due lavori per mantenere da sola sei figli perché il
padre se ne andò senza avvertire nessuno quando Drederick aveva sei anni.
Peggio di così, sarebbe stato difficile. Drederick e i suoi vivevano con il
welfare, non avevano nulla. Tranne il basket.
mercoledì 18 aprile 2018
A proposito del nuovo allenatore dei Knicks
Durante la stagione 1994/95, la sua quarta a New York, Pat
Riley chiese alla proprietà potere esecutivo su tutta la parte cestistica
dell’organizzazione. Ma i Knicks erano nel mezzo di un cambio di proprietà e
sono sempre stati una questione di equilibrismi, politica, potere. Riley non
ebbe risposta e cominciò segretamente a trattare con Miami. A fine stagione, si
dimise con un anno di contratto restante e si trasferì a South Beach. Gli Heat
dovettero ricompensare New York per schivare sanzioni. Riley ebbe da Micky
Arison quello che voleva. Sarebbero seguiti oltre 20 anni di gestione che hanno
prodotto tra le altre cose: tre titoli NBA, cinque finali, una galleria di
fenomeni che comprende LeBron James, Dwyane Wade, Alonzo Mourning, Chris Bosh,
Tim Hardaway e Shaquille O’Neal. Questi quasi 25 anni – ovviamente sarebbero cambiate molte
dinamiche – avrebbero potuto essere i 25 anni dei Knicks che tra l’altro nel
1995 erano molto più avanti di quanto lo fosse Miami nello sviluppo della
squadra. Anzi erano competitivi per vincere subito e infatti lo sarebbero stati
– senza Pat Riley – per altri cinque o sei anni (giocarono la Finale nel 1999,
persero la finale di conference nel 2000).
lunedì 16 aprile 2018
NBA Finals 1990-1999: la battaglia dei tre overtime a Chicago
Lo Chicago Stadium aveva
quasi 70 anni quando ospitò la terza Finale NBA della sua gloriosa storia.
Nacque come arena dedicata all’hockey su ghiaccio e mostrava, nel 1993, tutti
gli anni che aveva. Al di là della strada, era già in piedi il cantiere per la
costruzione dello United Center che avrebbe debuttato nella stagione 1994/95.
Lo Stadium non aveva le suite, gli spogliatoi somigliavano a scantinati, la
stampa prima della partita cenava in un luogo tetro. Poi i tavoli venivano
rimossi, sostituiti da una lunga fila di sedie asportabili e la stanza si
trasformava nel luogo deputato alle interviste post partita. Per accedere al
campo di gioco bisognava attraversare un tunnel strettissimo, salire lungo
scale pericolanti e infine accedere al tempio. Lo Stadium era decadente. Quindi
era bellissimo.
venerdì 13 aprile 2018
Allenatore dell'anno: otto candidati e un solo Brad Stevens
Non c’è mai stata probabilmente nella storia della NBA una
stagione con tanti allenatori meritevoli del trofeo di Coach dell’anno. E’
legittimo considerare candidati in nessun particolare ordine: Brad Stevens
(Boston), Dwane Casey (Toronto), Brett Brown (Philadelphia), Nate McMillan
(Indiana), Mike D’Antoni (Houston), Gregg Popovich (San Antonio), Terry Stotts
(Portland) e Quin Snyder (Utah). C’è un modo interessante, nell’era dei dati
analitici ormai di uso comune in America, per decifrare il rendimento di una
squadra: paragonare il numero di vittorie effettivo al numero di vittorie
preventivate a inizio stagione dai siti specializzati. Ad esempio di questi
otto allenatori, solo Popovich ha vinto meno partite (47 contro 53) del
preventivato; Stevens a Boston è andato pari. Gli altri ne hanno vinte in media
una decina in più.
martedì 10 aprile 2018
MVP Review: la vittoria di Harden e il check-up di tutte le candidature (All in One)
La corsa al titolo di MVP non è stata appassionante come un
anno fa quando il mondo si era diviso tra Russell Westbrook, James Harden e nel
finale prese quota la candidatura di Kawhi Leonard. Quest’anno Harden vincerà
con largo margine sul secondo classificato ed esiste una piccola possibilità
che come Steph Curry due anni fa vinca il titolo all’unanimità. Può starci:
Harden è il miglior giocatore della miglior squadra della stagione, quella che
ha stabilito il nuovo record franchigia di vittorie, ed è il miglior
realizzatore della Lega, oltre i 30 di media. Quest’anno Harden figurerà per il
quarto anno consecutivo nel primo quintetto All-NBA e in passato è arrivato due
volte secondo nella corsa all’MVP.
lunedì 9 aprile 2018
MVP Review: l'interminabile LeBron e i quintetti All-NBA
LeBron James aveva cominciato questa stagione con l'atteggiamento di un uomo in missione. Sembrava volesse appropriarsi per acclamazione del titolo di MVP, un modo inequivocabile per mettere a tacere ogni argomento di discussione su chi sia il miglior giocatore del mondo o su un suo presunto declino. Le difficoltà di Cleveland, con la conseguente rivoluzione del roster, hanno determinato una sorta di passaggio a vuoto, anche mentale, attorno a metà stagione in cui James Harden nella percezione pubblica ha allungato decisamente, lasciandoselo alle spalle. Così probabilmente LeBron non sarà l'MVP della stagione. Non si aggiudica il trofeo dal 2014. Guardando all'età verrebbe da dire che è normale: superati i 33 anni, sarebbe legittimo si risparmiasse durante la regular season per dare il meglio nei playoffs. Non dimentichiamo che LeBron gioca la Finale ininterrottamente dal 2011 (sono sette di fila praticamente due anni di carriera supplementari).
mercoledì 4 aprile 2018
MVP Review: Anthony Davis è il prototipo del centro moderno
Considerato che i New Orleans Pelicans avrebbero dovuto
sparire dalla corsa ai playoffs nel momento stesso in cui hanno perso per
infortunio DeMarcus Cousins – i cui numeri restano sensazionali -, la stagione
di Anthony Davis – The Brow – è stata naturalmente stupefacente. Non è una
sorpresa: Davis è il capostipite della generazione dei centri che possono
difendere sul perimetro oltre che al ferro, attaccare dal palleggio oltre che
dentro l’area ed essere decentemente pericolosi da fuori. Vengono in mente Karl-Anthony
Towns e Joel Embiid. Tutti questi giocatori sono sempre considerati ibridi nel
senso che la tendenza è quella di accoppiarli a centri veri, teoricamente
deputati a svolgere un po’ di lavoro sporco e fisico, ma il rendimento
generalmente è migliore quando possono fare a meno di tale compagnia.
martedì 3 aprile 2018
MVP Review: Westbrook resta superbo ma OKC ha vinto troppo poco
Da un punto di vista strettamente individuale, nonostante i
ben noti difetti (tiro da tre sotto il 30 %, qualche volta resiste alla
tentazione di usarlo, spesso no, specie nei finali di gara, ma lui è così,
agonista anche nello sfidare i propri limiti) o la tendenza a esagerare, Russell
Westbrook potrebbe essere confermato MVP della stagione. Perché no? Chiuderà
molto vicino alla seconda tripla doppia media in carriera. Qualche rimbalzo qua
e qualche rimbalzo là e ce l’avrebbe fatta ancora. Ha vinto la classifica degli
assist così autorizzandosi a cedere a James Harden lo scettro di miglior
realizzatore della Lega. I Thunder accanto a lui sono cambiati tanto e hanno
inciso anche sulla sua stagione: ha tirato meno (soprattutto da tre), ha tirato
meglio (45 %), ha segnato meno perché è andato meno in lunetta, ha “usato” il
34.3% dei possessi di Oklahoma City contro il 41.7% di un anno fa, cifra
record. Ha assistito quasi il 50 % dei canestri segnati dai compagni con lui in
campo. Perché quindi Westbrook non dovrebbe essere l’MVP?
venerdì 30 marzo 2018
MVP Review: perchè Durant e Steph si ostacolano
Nel momento stesso in cui due estati fa Kevin Durant scelse
di portare il suo talento sulla Baia, istantaneamente le sue possibilità di
vincere un secondo MVP dopo quello conquistato con Oklahoma City nel 2014 si
sono ridotte. E per osmosi si sono ridotte anche quelle di Stephen Curry.
Succede sempre quando un superteam non ha un chiaro leader. A Miami era LeBron
James pur arrivando lui, da esterno, nella squadra di Dwyane Wade; ai Lakers di
inizio secolo il leader era Shaquille O’Neal e Kobe Bryant è diventato un
candidato MVP solo quando Shaq è stato ceduto a Miami; a Houston, Chris Paul è
andato a fortificare i Rockets che restano la squadra di James Harden. Durant
era il numero 1 a OKC. Probabilmente, Russell Westbrook non sarebbe mai stato
l’MVP della Lega se KD non fosse andato mai andato via. Forse.
mercoledì 28 marzo 2018
MVP Review: il nuovo status di DeMar DeRozan
Può sembrare un’esagerazione includere DeMar DeRozan in una
qualsiasi conversazione sull’MVP di questa stagione soprattutto considerando le
cifre nude e crude. DeRozan, che è una guardia di alto livello da almeno cinque
anni, sta segnando circa quattro punti a partita in meno dei 27.3 di una
stagione addietro (record carriera) ed è passato da 5.2 a 3.9 rimbalzi per
gara. Va anche meno spesso in lunetta (da 8.7 viaggi a 7.2) e sarebbe
limitativo attribuire questa minor produttività al minutaggio. Dwane Casey lo
impiega 34 minuti di media, contro gli oltre 35 di un anno fa, un decremento
nel complesso trascurabile.
lunedì 26 marzo 2018
MVP Review: giocare a Portland penalizza Damian Lillard?
Damian Lillard ha 27 anni e per la quinta stagione
consecutiva sarà oltre i 20 punti di media oppure oltre i 25 per la terza. Eppure
resta un giocatore difficile da interpretare. In parte è una questione
logistica: Lillard ha giocato a Weber State dove l’esposizione è limitata, poi
è stato scelto nella seconda parte del primo giro del draft quindi con modeste
aspettative e infine è finito a Portland. Non è un mistero che giocare a tre
ore di fuso orario dalla costa est è penalizzante, soprattutto se non lo fai a
Los Angeles ma in un mercato limitato come quello di Portland. Avesse giocato a
New York è probabile – sicuro? – che la popolarità di Lillard sarebbe stata
diversa.
MVP Review: la candidatura tramontata di Giannis Antetokounmpo
Giannis Antetokounmpo per una porzione di stagione era stato
considerato un legittimo candidato MVP poi sono successe tante cose, ma soprattutto i Milwaukee Bucks sono scivolati
indietro nella classifica della Eastern Conference esattamente nella stagione
in cui, date le circostanze, avrebbero almeno potuto prendersi il vantaggio del
campo nel primo turno.
domenica 25 marzo 2018
MVP Review: nessuno può battere James Harden quest'anno
La corsa al titolo di MVP non è stata appassionante come un
anno fa quando il mondo si era diviso tra Russell Westbrook, James Harden e nel
finale prese quota la candidatura di Kawhi Leonard. Quest’anno Harden vincerà
con largo margine sul secondo classificato ed esiste una piccola possibilità
che come Steph Curry due anni fa vinca il titolo all’unanimità. Può starci:
Harden è il miglior giocatore della miglior squadra della stagione, quella che
ha stabilito il nuovo record franchigia di vittorie, ed è il miglior
realizzatore della Lega, oltre i 30 di media. Quest’anno Harden figurerà per il
quarto anno consecutivo nel primo quintetto All-NBA e in passato è arrivato due
volte secondo nella corsa all’MVP.
giovedì 22 marzo 2018
New York Basketball Stories 2.0: l'acquisto del nemico Monroe
Il 10 novembre 1971 invece i Knicks decisero di
eseguire un triplo salto mortale ed effettuare uno degli scambi più rumorosi
nella storia della NBA. Girarono Mike Riordan e Dave Stallworth a Baltimore per
ottenere niente di meno che Earl Monroe, il loro giustiziere dell’anno prima,
il grande avversario per anni, soprattutto di Walt Frazier.
NBA Finals Story 1990-1999: The Shrug
In gara 1 tutto quel che
fece Michael Jordan fu sparare, senza errori, dentro il canestro di Portland,
sei fucilate da tre punti. I Blazers lo invitarono al tiro. Come molti fecero
in quelle stagioni, anche a Portland pensarono che concedergli il tiro da fuori
fosse il minore dei mali. Almeno avrebbe evitato di caricare di falli gli
avversari attaccando l’area.
martedì 20 marzo 2018
Toronto Raptors: da Bosh e Bargnani a DeRozan, l'evoluzione
Negli ultimi due anni i migliori tre giocatori dei Toronto
Raptors sono andati a scadenza di contratto. Ogni singolo contratto in scadenza
ha dato la possibilità al general manager Masai Ujiri – una storia incredibile
la sua, ragazzo nigeriano emigrato negli Stati Uniti per il college e diventato
un top manager nella NBA – di implodere la propria creatura e ripartire da zero
prendendo atto che la squadra non era abbastanza forte da superare LeBron James
o difendersi dall’ascesa di Boston, per cominciare (ma anche Philadelphia e forse
Milwaukee), ma comunque troppo costosa per attrarre free-agent altrui e troppo
buona per scegliere in alto nel draft. E invece Ujiri ha confermato le sue
star, eseguito un capolavoro nel circondarli di giocatori giovani, a basso
costo e futuribili, e ha in mano adesso una squadra che entrerà nei playoff come
prima di conference e con la concreta possibilità di approdare per la prima
volta nella sua storia in finale.
domenica 18 marzo 2018
L'evoluzione del gioco dei Raptors
Nurse è uno degli assistenti di Dwane Casey, uno dei
sopravvissuti dei Raptors. Casey era un giovane assistente di Kentucky quando
una busta spedita da lui alla recluta Chris Mills (futuro discreto giocatore
NBA) contenente denaro saltò fuori in modo rocambolesco creando uno scandalo
che avrebbe dovuto spazzarlo via. Casey ripartì dal Giappone, era un reietto.
In seguito è riemerso prima da assistente (a Seattle ha fatto la finale del
1996, a Dallas ha vinto il titolo del 2011) e poi capo a Minnesota e infine
Toronto.
sabato 17 marzo 2018
La storia dell'ascesa dei Raptors
Nel 2009/10 i Toronto Raptors vinsero 40 partite e non si
qualificarono per i playoff. Bosh in quel momento vantava due apparizioni in
post-season e due eliminazioni al primo turno. Non c’era modo che quei Raptors
potessero diventare una squadra da titolo. E Bosh era la “spalla” più ricercata
della NBA nella stagione clamorosa di “The Decision”. Chris si accodò a Dwyane
Wade e LeBron James trasferendosi a Miami. I Raptors rimasero senza la loro
star e costretti a ricostruire. Tuttavia Colangelo aveva già gettato basi
importanti: nel 2009 aveva scelto DeMar DeRozan che nel primo anno senza Bosh
ebbe 17.2 punti per gara a 21 anni di età. Nei draft successivi alla fuga di
Bosh scelse Jonas Valanciunas e Terrence Ross. Nell’estate del 2012 acquistò da
Houston anche Kyle Lowry. Quando nel 2013 venne sostituito da Ujiri lasciò al
suo successore i tre quinti dello starting five di adesso inclusi i due
All-Star, più Ross che poi Ujiri avrebbe utilizzato per prendere Ibaka da
Orlando. Per quanto i Sixers di oggi siano considerati il frutto del lavoro di Sam
Hinkie e delle sue drastiche idee (Trust The Process) più che di Colangelo
(teoria rafforzata dal disastroso – al momento - scambio Fultz-Tatum con
Boston); al tempo stesso nei Raptors di oggi c’è molto di Colangelo. Ujiri ha
ricevuto una grande eredità e l’ha valorizzata bene.
venerdì 16 marzo 2018
Ecco come Toronto è diventata la miglior squadra dell'Est
Negli ultimi due anni i migliori tre giocatori dei Toronto Raptors sono andati a scadenza di contratto. Ogni singolo contratto in scadenza ha dato la possibilità al general manager Masai Ujiri – una storia incredibile la sua, ragazzo nigeriano emigrato negli Stati Uniti per il college e diventato un top manager nella NBA – di implodere la propria creatura e ripartire da zero prendendo atto che la squadra non era abbastanza forte da superare LeBron James o difendersi dall’ascesa di Boston, per cominciare (ma anche Philadelphia e forse Milwaukee), ma comunque troppo costosa per attrarre free-agent altrui e troppo buona per scegliere in alto nel draft. E invece Ujiri ha confermato le sue star, eseguito un capolavoro nel circondarli di giocatori giovani, a basso costo e futuribili, e ha in mano adesso una squadra che entrerà nei playoff come prima di conference e con la concreta possibilità di approdare per la prima volta nella sua storia in finale.
giovedì 15 marzo 2018
La perdita del Re Saltatore di Charlotte, Henry Hi-Fly Williams
Questa è davvero dura da assorbire perché Henry Williams
aveva solo 47 anni, perché tutti noi siamo stati testimoni della sua intera
carriera professionistica, pensando che nella NBA erano stati pazzi a non
accettarne i limiti di taglia fisica per prendere tutto quello che sapeva fare
con il suo tiro mancino, l’esplosività, la straordinaria velocità di piedi. Ricordo la
prima volta che lo vidi fuori dal campo. C’era un ristorate vicino al palasport
di Verona. Non ricordo quale partita fosse. Lui entrò, vestito bene, elegante,
e dai tavoli spontaneamente si alzò un applauso che lo mise in imbarazzo. Fece
un piccolo inchino, alzò il braccio. Era contento e a disagio al tempo stesso.
L’ultima volta fu in America: aveva smesso di giocare presto dopo gli anni di
Verona, Treviso, Roma e Napoli. Lavorava come commentatore televisivo per
Charlotte. In fondo era anche quello un modo per raggiungere la NBA. Parlava
ancora in modo accettabile l’italiano. Da tempo era un pastore battista – la
religione sempre al primo posto della sua vita – ma faceva tante cose, aveva
sostenuto altre attività imprenditoriali, anche con la moglie. Fare l’analista
televisivo gli permetteva di rimanere a contatto con il basket in un posto in
cui aveva giocato solo a livello universitario ma dov’era una leggenda. Era
allegro, felice, una persona di successo, in pace con sé stesso e con la vita.
Era prima del 2009 quando gli dissero che i suoi reni non funzionavano più e
non sapevano spiegarsi perché. Da quel momento otto ore al giorno di dialisi:
comprò la macchina per evitare di dover andare in ospedale tutti i giorni e
poterla usare a casa. E provava a vivere come se fosse ancora Hi-Fly Williams,
il più grande realizzatore nella storia di North Carolina-Charlotte. Predicava
tutte le settimane ai fedeli, non aveva perso fede, fiducia, entusiasmo. La
vita l’aveva colpito duramente ma non l’aveva spento. Almeno fino a ieri.
mercoledì 14 marzo 2018
New York Basketball Stories 2.0: Frazier l'uomo che veniva dalla povertà
Frazier era il più anziano di nove figli di una
famiglia poverissima di Atlanta in Georgia in un’epoca in cui per gli
afroamericani il sud del paese non era proprio il luogo più piacevole in cui
vivere. Giocava alla Howard High School e diventò una stella, il miglior
giocatore della Georgia ma con pochissima visibilità perché confinato nelle
competizioni per soli ragazzi di colore nelle palestre ghettizzate di scuole
nere. Non venne neanche considerato dai college della zona, tipo Georgia Tech,
che anni dopo avrebbe attinto ripetutamente dalle strade di New York (Kenny
Anderson, Stephon Marbury), o Georgia.
martedì 13 marzo 2018
New York Basketball Stories 2.0: l'ingresso di Willis Reed zoppicante
Fu Veronica Reed, la figlia di Willis, in Louisiana,
la prima a sapere. Rientrato da Los Angeles, Reed si era fatto massaggiare da
Whelan, si era sottoposto a mille trattamenti, ultrasuoni, impacchi,
idromassaggi, poi era tornato a casa, a Rego Park, nel Queens, in attesa del
grande giorno. Quando arrivò al Garden si cambiò e andò ad eseguire qualche
tiro in campo ma zoppicando vistosamente. Chiamò Veronica mentre i compagni
erano già in campo per il riscaldamento. Le disse che avrebbe provato. Nel suo
cuore orgoglioso di ragazzo del sud, della Louisiana, non c’era spazio per i
tentennamenti. Nessuno avrebbe mai detto che i Knicks avevano perso il titolo
perché Reed non aveva giocato. Il dottor James Parkes si presentò in
spogliatoio con una siringa enorme, adatta alle vene di Willis, e gli iniettò
300 cc di carbocaina, l’antidolorifico più potente in circolazione. Reed si
avviò verso il tunnel che conduce al campo. Fu accolto da un boato. Era come un
urlo di liberazione per i tifosi dei Knicks. I suoi due tiri di riscaldamento
furono i più inutili e seguiti della storia. Addirittura ci fu chi esultò
quando andarono dentro…
sabato 10 marzo 2018
NBA Finals Story 1990-1999: i Chicago Bulls
Chicago è una bellissima
metropoli adagiata sul Lago Michigan e colpita da un vento fortissimo e spesso
gelido che le è valso il nomignolo di The Windy City per quanto nessuno a
Chicago l'abbia mai definita cosi. Anzi. Molti abitanti rifiutano persino il
concetto di città tremendamente ventosa menzionando statistiche che non la
collocano tra le prime cinque città più ventose d'America. Non importa cosa
dicano le statistiche: il vento è forte e Chicago è fredda. Michigan Avenue è
l'arteria principale. Una parte di essa è detta The Magnificent Mile per i
negozi e ristoranti di lusso. Il resto della città è costruita attorno ad essa,
vita notturna inclusa. In questa zona di Chicago a quei tempi, su La Salle,
c'era anche il ristorante di Michael Jordan, che negli anni sarebbe diventato
un'altra delle attrazioni turistiche del luogo.
venerdì 9 marzo 2018
NBA Finals Story 1990-1999: Joe Dumars
La limousine era pronta
fuori dal Memorial Coliseum di Portland. All'aeroporto un jet privato del
proprietario dei Detroit Pistons, Bill Davidson, lo stava aspettando. Tutto
quel che restava da fare era comunicare a Joe Dumars che 90 minuti prima della
palla a due di gara 3 della Finale NBA del 1990 il padre Joe jr aveva lasciato
la terra nella sua casa di Natchitoches in Louisiana. Non era una notizia
inaspettata. Joe jr stava male da tempo, le sue condizioni erano peggiorate
nelle due settimane precedenti e Joe Dumars III, il più giovane dei suoi sette
figli, aveva dato istruzioni precise su come gestire la scomparsa se fosse
coincisa con il giorno di una partita. Aveva chiesto che lo lasciassero giocare
salvo informarlo solo alla fine. A quel punto sarebbe rientrato a casa per il
funerale.
mercoledì 7 marzo 2018
Update: Mike D'Antoni e l'evoluzione dei Rockets
I Rockets hanno vinto a Oklahoma City, dominando, la loro
sedicesima partita consecutiva. In altri tempi sarebbero stati i favoriti
proibitivi nella corsa al titolo NBA che non vincono dal 1995 ma questi sono i
tempi dei Warriors e Golden State merita di essere ancora considerata la
squadra da battere. Ma l'esito della stagione non toglierà nulla alla statura
ormai leggendaria di Mike D'Antoni come allenatore. Due volte coach dell'anno
se non vincerà il trofeo quest'anno sarà principalmente perché mai viene dato
due anni di fila allo stesso coach. Brad Stevens a Boston e Dwane Casey a
Toronto sono legittimi candidati. Qui però vorrei aggiornare la storia di
allenatore di Mike D'Antoni.
sabato 3 marzo 2018
"NBA Finals Story" ora anche in edizione cartacea
Per coloro a cui dovesse interessare adesso la versione 2.0 di "NBA Finals Story 1990-1999" è disponibile su Amazon anche in formato cartaceo. Sono 502 pagine inclusi i contenuti extra rispetto alla versione originale, rivista e aggiornata. Eccolo qui.
venerdì 2 marzo 2018
"New York Basketball Stories 2.0" ora anche su carta
A grande richiesta (!!!) adesso la versione 2.0 di "New York Basketball Stories" è disponibile su Amazon anche nel formato cartaceo. Così spero di aver accontentato in qualche modo i - fortunatamente - tanti nemici dei libri in formato digitale che hanno peraltro il pregio di poter costare molto meno (e il difetto che non puoi esporli in alcuna libreria per cui - essendomi adattato - la mia personale si ferma a diversi anni fa). Eccolo qui.
mercoledì 28 febbraio 2018
Il giorno maledetto in cui perdemmo Drazen Petrovic
Dove eravate – se c’eravate visto che parliamo del 1993 –
quando Drazen Petrovic perse la vita su un’autostrada tedesca? Cosa stavate
facendo quando la notizia vi arrivò sulla mascella come un terribile colpo da
knock-out? Era il giugno del 1993. Io ero a JFK, l’aeroporto di New York, in
attesa del volo per Phoenix dove l’indomani avrei assistito alla prima partita
della Finale NBA tra i Bulls e i Suns. Avevo lasciato l’Italia molte ore prima
quando la notizia non era ancora diventata di dominio pubblico. A New York
acquistai una copia di USA Today, la meravigliosa versione statunitense che da
noi arrivava in formato ridotto, con le sue quattro o cinque sezioni complete,
quella sportiva strepitosa. Davide Dupree era la prima firma del primo
quotidiano americano autenticamente nazionale. Il grande Peter Vecsey scriveva
tre volte alla settimana il suo “Hoop du Jour”, la rubrica più potente che sia
mai stata scritta nel basket americano ma potrei dire mondiale. A quei tempi le
notizie le apprendevi così: seppi che Drazen era morto acquistando USA Today.
domenica 25 febbraio 2018
La multa a Cuban: il problema del tanking non si risolve ignorandolo
Mark Cuban ha vissuto una settimana infernale: un'indagine di Sports Illustrated ha smascherato una cultura da "Animal House", come è stata etichettata negli uffici dei Dallas Mavericks, con reiterate, sgradevoli storie di molestie a sfondo sessuale per le quali ha dovuto scusarsi e licenziare persone autoaccusandosi delle mancanze del sistema di controllo. Nel frattempo aveva avuto la cattiva idea di ammettere, in un'intervista radiofonica concessa a Julius Erving, nientemeno, che la miglior opzione per i Mavs è perdere il maggior numero possibile di partite. La dichiarazione gli è costata 600.000 dollari. La più alta multa mai comminata ad un proprietario. Ritocca il mezzo milione che gli venne inflitto per aver attaccato l'allora responsabile degli arbitri Ed Rush.
sabato 24 febbraio 2018
Trust The Process: a che punto siamo Philadelphia?
E’ molto probabile che a South Philly quest’anno si
giocheranno partite di playoffs. Magari non molte, partendo dalla posizione
attuale, la settima nella Eastern Conference, ma è significativo perché per la
prima volta da molti anni i Sixers non stanno giocando solo per il futuro. Un
possibile scontro di post-season con i Boston Celtics sarebbe un trionfo per i
nostalgici dell’era in cui due delle franchigie storiche della Lega si
contendevano su base annua l’accesso alla Finale NBA. Per otto anni, dal 1980
al 1987, l’Est è stato rappresentato in Finale dai Sixers o dai Celtics. L’ultimo
titolo vinto da Philadelphia risale al 1983, l’ultima Finale al 2001, all’apice
dell’era firmata da Allen Iverson. Non è un mistero che il futuro dei Sixers
sia spettacolare: tre dei giocatori del quintetto base hanno 23 anni o meno,
due di essi hanno potenziale da MVP (Joel Embiid e Ben Simmons; il terzo uomo è Dario Saric), un quarto ha
27 anni (Robert Covington). In altre parole, hanno il personale e l’età per
competere al vertice per i prossimi 10 anni con una squadra costruita attorno a
tre o quattro giocatori già presenti nel roster tra i quali solo Covington è
già al top del proprio rendimento. L’unica vera incognita è rappresentata dal
fisico di Embiid, che tecnicamente sarebbe al quarto anno nella Lega ma di
fatto è poco più di un rookie.
sabato 17 febbraio 2018
Perché Andre Roberson era così importante a Oklahoma City
Può una guardia da 5.0 punti di media e il 22% nel tiro da
tre rivelarsi il giocatore più importante di una squadra NBA potenzialmente di
vertice? Il caso Andre Roberson è singolare: per mesi è stato considerato – con
tutto il rispetto per la sua straordinaria attitudine difensiva – l’anello
debole del quintetto degli Oklahoma City Thunder. Lui è il giocatore che gli
avversari mandano in lunetta volontariamente, che ignorano completamente quando
è in attacco sfidandolo a tirare per difendere in cinque contro gli altri
quattro. Nelle cinque gare giocate contro Houston nei playoff del 2017,
Roberson ha fatto il 14.3% dalla lunetta eseguendo 5.5 liberi di media,
tantissimi. I Rockets lo mandavano in lunetta come strategia con risultati
eccellenti. In altre parole, i suoi problemi come tiratore obbligavano il Coach
Billy Donovan a sostituirlo in certi momenti per reinserirlo solo negli ultimi
due minuti quando l’”hack” premeditato non è più consentito. I limiti di
Roberson come tiratore sono imbarazzanti. Quest’anno prima di infortunarsi in
modo definitivo aveva il 31.6% dalla lunetta e il 22.2% da tre punti. Eppure…
venerdì 9 febbraio 2018
I Cavs scommettono che la cessione di IT ai Lakers non sarà un autogol
Quindi i Cleveland Cavaliers hanno consegnato ai Los Angeles
Lakers i mezzi per provare davvero a convincere LeBron James a trasferirsi
sulla Costa Ovest. Non sarà possibile valutare la clamorosa ristrutturazione
della squadra operata oltre la metà della stagione dai Cavs fino a che non conosceremo
la decisione di LeBron quando sarà free-agent il prossimo primo luglio. Per il
momento, il nuovo general manager Koby Altman ha alzato la pressione su sé
stesso in modo incredibile.
giovedì 8 febbraio 2018
L'infortunio di KP: cosa significa per i Knicks
Può essere che tra qualche anno l’infortunio occorso a
Kristaps Porzingis e i 10 mesi in cui – minimo, perché è ipotizzabile un
approccio prudente al rientro – sarà assente venga ricordato come il momento
della svolta nella storia dei Knicks. Oggi come ha detto il general manager
Scott Perry è normale avvertire solo tanto dispiacere per il ragazzo.
domenica 4 febbraio 2018
Quale futuro per DeMarcus Cousins, i Pelicans e AD?
La rottura del tendine d’Achille che impedirà a DeMarcus
Cousins di giocare nel suo quarto All-Star Game consecutive ha potenti
ripercussioni sul futuro suo, dei New Orleans Pelicans e di conseguenza del
giocatore che tutti i club con aspirazioni di titolo seguono a distanza nel
caso dovesse muoversi: Anthony Davis.
giovedì 1 febbraio 2018
Blake Griffin: il punto di vista di Detroit
Detroit aveva bisogno di un colpo. Blake Griffin lo è. Il
tempo a disposizione di Stan Van Gundy, allenatore ma anche presidente dei
Pistons, per mostrare qualcosa di promettente stava per scadere. In quattro
anni è chiaramente sotto il 50% di vittorie, vanta una sola partecipazione ai
playoff e nessuna vittoria in post-season. In ogni caso non sembrava più così
saldo e aveva necessità di fare qualcosa che invertisse la rotta, nel momento
in cui la squadra si è trasferita nel cuore di Detroit – downtown è stata
riprogrammata dopo un lungo periodo di difficoltà in cui la città era di fatto
fallita – ma non era di moda.
martedì 30 gennaio 2018
Blake Griffin: il punto di vista dei Clippers
La fine di “Lob City”, sancita dalla defezione di Chris Paul,
aveva messo i Clippers in una situazione molto difficile in estate, in mezzo al
guado tra la ricostruzione o il tentativo di rimanere ancora competitivi a
dispetto di una perdita devastante come quella del cosiddetto “Point-God” con
cui – va ricordato – comunque i Clippers non sono mai andati oltre il secondo
turno dei playoffs. In estate i Clippers non erano pronti ad arrendersi e accettare un ruolo minore, per
tanti motivi, alcuni commerciali (prezzi dei biglietti alzati, trattative in
corso per un nuovo impianto, la battaglia per la torta televisiva nella zona di
Los Angeles, i Lakers del nuovo corso), e altri più strettamente agonistici. In
fondo si erano illusi di essere più forti di quello che erano o forse erano stati
solo più sfortunati di altre squadre. Fatto sta che la perdita di Paul, in minima
parte compensata dai giocatori arrivati da Houston principalmente Lou Williams,
non ha convinto Steve Ballmer, il supermiliardario proprietario del club, a
staccare la spina e ripartire. I Clippers hanno provato a rimanere rilevanti prendendo
Danilo Gallinari – e non sono stati fortunati, visto che praticamente per ora
non ha giocato – e soprattutto estendendo Blake Griffin.
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