La carriera di Kareem Abdul-Jabbar
probabilmente vale nel complesso più di quanto valgano quelle di ogni altro
giocatore nella storia del club. Ma Kareem ha trascorso un terzo della propria
storia a Milwaukee dove ha vinto un titolo, giocato due finali e probabilmente
espresso il miglior basket della propria carriera. È arrivato a Los Angeles al
top della sua evoluzione ma negli anni in cui non aveva neppure un All-Star al
suo fianco. Anni di numeri e trofei ma non vittorie.
Shaquille O'Neal è arrivato ai
Lakers dopo quattro anni a Orlando. Aveva già giocato una finale e forse già
vissuto la sua stagione migliore atleticamente. Ma aveva 24 anni e stava
approcciando i migliori anni della sua vita. Lo Shaq più forte è arrivato al
terzo titolo dei Lakers poi è cominciato il declino. Ha aiutato Dwyane Wade a
vincere il titolo del 2006 a Miami accettando il ruolo di numero due. Ma il
vero Shaq è stato quello dei Lakers.
Collocare Jerry West
in questa classifica è frustrante perché non esiste alcuna possibilità di
rendergli giustizia. West ha cominciato la sua carriera
in un'era differente, dominata dai centri ma in un basket che non è
riconoscibile in quello di oggi. Lui però con Oscar Robertson è riuscito a
prolungare la carriera ad alto livello fino a concluderla immerso in un basket
più moderno, giocando contro giocatori della generazione successiva come lo
stesso Kareem. Se guardate il video di una partita di quegli anni ad esempio
vedrete nel grande Bill Russell ovvero il giocatore più vincente della storia
un centro antico, che difendeva in mezzo all'area e concedeva il tiro dalla
media o sua volta veniva marcato con spazio oggi inesistente. Ma West come pochissimi altri era già un giocatore futuristico.
Tiro perfetto, usava due mani, durissimo, arrivava al ferro e passava la palla
divinamente anche se non ha ricevuto come passatore il credito che meritava.
Elgin
Baylor è stato il contrario dei “ring chasers” attuali. Non solo non ha mai
inseguito un anello ma quando poteva vincerlo, nel 1972, ha preferito ritirarsi
piuttosto che conquistarlo partendo dalla panchina come voleva Bill Sharman. In
quel momento, Baylor aveva imboccato il viale del tramonto. E’ stato uno dei
pochissimi giocatori della storia ad essersi davvero ritirato prima di mostrare
di sé stesso un volto meno brillante di quello reale. Purtroppo nella galleria
dei grandi Laker della storia lui è penalizzato dalla mancanza totale di
titoli. A nessun altro è successo.
Sul piano
individuale la carriera di Worhty non è paragonabile a quella dei primi otto di
questa classifica. Può darsi che Worthy si sia trovato al posto giusto nel
momento giusto fin dai tempi del college. Vinse il titolo NCAA con North
Carolina giocando assieme a Michael Jordan (e Sam Perkins) ma questo non
c’entra. Nel 1982 è entrato nella NBA al numero 1 del draft nell’anno in cui
sceglievano i Lakers così si è trovato subito in una dinastia generazionale che
gli ha permesso di giocare tutta la carriera professionistica al top.
Hakeem Olajuwon, Patrick
Ewing, David Robinson e poi Shaquille O’Neal, Alonzo Mourning e Dikembe Mutombo
hanno costruito l’ultima grande generazione di veri centri, dominanti, prima
che il basket NBA si dirigesse verso nuovi orizzonti, perimetrali riannodando i
fili con le stagioni “controllate” da Michael Jordan. Chi è stato il migliore
di loro e come vanno considerati rispetto ai “predecessori”?
Chamberlain
è storicamente il giocatore più difficile da collocare in qualsiasi classifica.
Analizzandone la carriera è facile considerarlo il più grande di tutti,
pensando ai numeri, i record, i 100 punti in una partita, i 50.4 punti di media
in una stagione, il dominio fisico paragonabile solo a quello esercitato da
Shaquille O’Neal, con numeri inferiori.
I Milwaukee Bucks detenevano il
diritto di chiamare al numero 1 del draft NBA ma la ABA sbandierando presunti
diritti territoriali aveva concesso ai New York Nets la possibilità di
scegliere per prima. Alcindor, anche per carattere, decise che non avrebbe
avuto problemi a giocare nella ABA e probabilmente era anche attratto dai Nets
ovvero dal ritorno a casa. “Volevo tornare a New York – disse Kareem Abdul-Jabbar in seguito – i
Nets erano in vantaggio”. Di sicuro giocare nella ABA sembrava più appetibile
che trasferirsi a Milwaukee. Ma giocò pulito. Disse che avrebbe ascoltato una
proposta per squadra e avrebbe accettato la più alta. Si raccomandò di sparare
tutte le cartucce perché non avrebbe dato a nessuno una seconda chance e di
sicuro non voleva trascinare a lungo quella trattativa.
Ci sono
giocatori che incredibilmente hanno scelto la partita sbagliata in cui
esplodere. Nella Finale del 1970, Walt Frazier segnò 36 punti con 19 assist
consegnando ai Knicks il loro primo titolo ma quella partita rimarrà per sempre
quella dell’atto eroico di Willis Reed (in campo zoppicando, due canestri nei
primi due possessi in un pandemonio indescrivibile). Nell’immaginario
collettivo la partita incredibile di Frazier resta avvolta nella nebbia. A
Jamaal Wilkes successe lo stesso nel 1980: quando i Lakers vinsero il titolo in
gara 6 a Philadelphia senza Kareel Abdul-Jabbar, lui segnò 37 punti! Ma li
segnò nella sera in cui il rookie Magic Johnson ne fece 42! Wilkes ha vinto un
titolo da rookie ai Warriors come spalla di Rick Barry poi due a Los Angeles
quand’era il numero tre della squadra dopo Magic e Kareem (o viceversa). Può
essere considerato il James Worthy della prima edizione dello Showtime. In quelle
stagioni a Los Angeles ebbe 18.4 punti di media con 5.4 rimbalzi con due
convocazioni per l’All-Star Game. Rispetto a Worthy ha fatto un pochino di meno
e in quella squadra c’era anche Norm Nixon a reclamare il ruolo di terza punta.
Ma Wilkes era un all-around super, che nel ruolo di ala piccola giocava contro
i giocatori di maggior talento della NBA di allora, vedi Larry Bird a Boston,
Julius Erving a Philadelphia, Marques Johnson a Milwaukee. Aveva un tiro
atipico, un movimento circolare sopra la testa, ma letale.
Altro
giocatore difficile da collocare in questa classifica. Nei Lakers del triennio
2008/2010, due titoli e tre finali consecutive, era il terzo giocatore della
squadra dopo Kobe e Pau Gasol, ma è stato uno starter a tempo pieno solo nel
primo anno (nelle 21 gare di playoffs il quintetto era Fisher, Kobe, Odom,
Gasol e Radmanovic), nel secondo con l’innesto di Andrew Bynum in quintetto lui
è diventato il sesto uomo della squadra che aveva normalmente Trevor Ariza da
ala piccola; nel terzo anno non c’era più Ariza ma c’era Ron Artest (o Metta
World Peace). E l’anomalia conclusiva è che è stato il sesto uomo dell’anno nel
2011 quando quel ciclo dei Lakers volgeva al termine. Dei suoi anni ai Lakers
(il top della carriera anche se giocò molto bene a Miami e anzi servì agli Heat
per permettere loro di arrivare a Shaq e vincere il titolo del 2006), vanno
notati i rimbalzi, davvero tanti per un giocatore più di fioretto, di classe
che ruvido. Odom è sempre stato un all-around, non abbastanza affamato di
canestri per sprigionare un potenziale formidabile. La sua carriera sarebbe
sbagliato definirla incompiuta perché ha vinto, ha giocato ad alto livello,
guadagnato tantissimo e confezionato molte stagioni strepitose. Resta solo il
dubbio di cosa sarebbe stato se la vita fosse stata più clemente nei suoi
confronti o se lui avesse saputo gestire le avversità diversamente.
Il numero
di titoli è impressionante. Cooper c’è sempre stato: c’era a Philadelphia
quando Magic Johnson si presentò al Mondo e c’era quando i Lakers vinsero due
titoli consecutivi nel 1987 e 1988. Il suo ruolo è sempre stato da comprimario,
un sesto o settimo uomo atletico, una versione antesignana dei cosiddetti “3
and D” attuali. Piedi per terra segnava. Poi i Lakers correvano e lui era uno
che correva e saltava. Non è mai stato una stella ma è stato incluso otto volte
nei quintetti All-Defensive della Lega. Difficile anche lui da collocare: in
un’altra squadra avrebbe probabilmente avuto una carriera insignificante, di
sicuro non così vincente, ma vale per tutti coloro che sono saliti a bordo di una
grande dinastia. Nello Showtime, Cooper ha avuto un ruolo importante.
Nella
prima versione dello Showtime (1980-1985), i Lakers avevano una sorta di “buco”
nella posizione di ala forte. Pat Riley coniò lo slogan “No Rebounds, No Rings”
perché il tasso di fisicità della squadra non era all’altezza di quello dei
Celtics dei Big Three Bird-McHale-Parish (più inizialmente Cedric Maxwell; nel
1985/86 anche Bill Walton). L’ala forte dei Lakers era Spencer Haywood nel 1980
ma Haywood buttò via la parte più importante della sua carriera e venne
tagliato prima del titolo ma nel frattempo aveva già perso il posto di titolare
in favore di un giocatore buono ma non trascendentale come Jim Chones. Per
migliorare la posizione venne preso Bob McAdoo, nella parte conclusiva della
carriera, ma venne impiegato da sesto-settimo uomo e aveva caratteristiche da
star che si conciliavano male con un quintetto base ricco di talento e
realizzatori. Kurt Rambis fu un’invenzione, uno spaccalegna durissimo che
giocava con gli occhiali ed era pronto a fare la guerra contro tutti. Ma il
problema venne risolto veramente solo quando arrivò AC Green, che difendeva forte,
prendeva i rimbalzi e tirava dalla media, era atletico. Green era uno starter
inamovibile della squadra che vinse nel 1987 e 1988, giocò la Finale anche nel
1989 e nel 1991. Poi ritornò a fine carriera e vinse un altro titolo da
veterano nel 2000. Green è passato alla storia perché nell’epoca in cui i
Lakers erano la squadra più “cool” del mondo, lui predicava la castità e il
sesso solo dopo il matrimonio. ESPN ha fatto un documentario sull’atipicità del
suo stile di vita dell’epoca.
14 Byron
Scott
(3
titoli, 15.1 ppg, 2.8 apg, 3.0 rpg)
Byron
Scott è nato a Inglewood, esattamente nel sobborgo di Los Angeles che negli
anni ’80 e ’90 ospitava i Lakers, al celebre Faboulos Forum. Quindi era davvero
un ragazzo di casa, che aveva frequentato il liceo a Inglewood e fu ottenuto
dai Lakers cedendo ai Clippers il “fan favourite” Norm Nixon. Scott, che era
andato ad Arizona State, era una guardia pura, un tiratore dalla media
fantastico che probabilmente in un’epoca diversa sarebbe stato più importante
stendendo il suo raggio di tiro oltre l’arco (2.0 tiri da tre di media in
carriera con il 37.7%). L’impresa di Scott fu irrompere in quintetto
praticamente fin da rookie. Nel 1987/88, il suo ultimo titolo, segnò 21.7 punti
di media (19.6 nei playoffs). Come realizzatore aveva un ruolo vitale, come ricevitore
degli scarichi di Magic o dell’attenzione che generavano Kareem (più nel 1985
che nei titoli del 1987 e 1988) e Worthy. (2-continua)
Solo i Boston Celtics hanno una storia paragonabile a
quella dei Los Angeles Lakers e un numero di giocatori “storici” competitivo.
Nell’anno in cui vengono ritirate le due maglie di Kobe Bryant e si è discusso,
si discute sul suo ruolo nella storia della franchigia, ho provato a stilare e
analizzare la mia Top 20 dei giocatori gialloviola, escludendo il periodo di
Minneapolis per evidente impossibilità di paragonare i giocatori di quell’epoca
alle successive e la totale mancanza di immagini che avrebbero potuto aiutare a
farsi un’idea almeno stilistica (di Jerry West e Elgin Baylor qualcosa esiste e
in più hanno giocato con e contro giocatori di generazioni più familiari, nei
primi anni ’70). Ovviamente sono classifiche soggettive, che lasciano il tempo
che trovano, non vogliono dimostrare nulla, sono opinabili ma proprio per
questo sono sempre state fatte e sempre verranno fatte.
Visto che siamo nel regno dell’impossibile, sarebbe bella
una partita tra i Top 10 dei Celtics e i Top 10 dei Lakers. Immaginate i
match-up iniziali: Bob Cousy, John Havlicek, Larry Bird, Kevin Garnett, Bill
Russell contro Magic Johnson, Jerry West, Kobe Bryant, Elgin Baylor e Kareem
Abdul-Jabbar. Dalla panchina: Sam Jones, Ray Allen, Paul Pierce, Kevin McHale,
Dave Cowens, Robert Parish per i Celtics; Norm Nixon, Jamaal Wilkes, James
Worthy, Shaquille O’Neal e Wilt Chamberlain per i Lakers.
Seattle è stata la più
dolorosa perdita subita dalla NBA. Altre città hanno perso la loro squadra,
Buffalo, Kansas City, Charlotte l’ha persa e ritrovata, naturalmente Vancouver.
Ma sono state perdite precoci o addirittura indolori. Ma Seattle… Seattle aveva
un seguito popolare enorme, un pubblico caldissimo, una grande tradizione –
ancora esistente – di giocatori locali. E aveva tradizione. Vinse il titolo nel
1979 con Jack Sikma, Gus Williams e Fred Downtown Brown. Negli anni Seattle si
è evoluta dal punto di vista sportivo, parallelamente alla crescita economica
della città. I Seattle Seahawks hanno vinto il Superbowl. I Sounders di calcio
sono diventati una realtà intrigante. I Mariners di baseball sono una presenza
stabile e sono stati la prima squadra del grande Alex Rodriguez. Ma i Sonics
sono arrivati per primi, avevano un valore civico, erano motivo di orgoglio per
tutta la città. Negli anni successivi alla Finale del 1996, a Seattle vennero
inaugurati il Safeco Field e il CenturyLink Field, impianti moderni costruiti
con soldi pubblici per baseball e football. Il problema è che i Sonics
arrivarono tardi a battere cassa.
Quando Manigault ottenne protezione dai gangster di
Harlem per il suo campo da basket e fondò la Goat League in breve tempo le
partite diventarono oggetto di scommesse tra bande di spacciatori che
allestivano le loro squadre e “giocavano” a fare i proprietari. Erano un altro
modo per provare a guadagnare dei soldi o far scorrere adrenalina nelle vene.
Le leggende dei playground di quegli anni sono state in parte il prodotto di
questa triste evoluzione. Il più famoso di tutti ironicamente si chiama James
Williams ma il soprannome è Speedy.
Phil Jackson ha vinto sei
titoli NBA negli anni ’90 e altri cinque nel decennio successivo. Ha battuto il
record "inarrivabile" di Red Auerbach e a mio modo di vedere merita di essere
considerato il più grande coach della storia. Tutto è opinabile nel basket e i
paragoni tra interpreti di ere differenti sono difficili tra i giocatori,
immaginate tra gli allenatori. Jackson ha vinto più di tutti ma è comunque legittimo
discuterne il ruolo di numero 1. Proverò ad analizzare la questione.
Nel 2009 Michael Jordan è
stato ovviamente eletto nella Hall of Fame di Springfield e secondo tradizione
in un lungo discorso ha tratto le somme della sua carriera. Ma il discorso di
Jordan è stato per molti sorprendente nel senso che MJ ha eliminato tutta la canonica
diplomazia di queste occasioni per andare dritto al sodo e spiegare che tutti i
miti riguardanti la sua capacità di automotivarsi trovando stimoli dappertutto
erano… veri.
Molti hanno trovato il
discorso di Jordan, ancora visualizzato tantissimo su youtube, di cattivo
gusto. Era la sua festa perché polemizzare? Ma la realtà è che Jordan voleva,
probabilmente per la prima volta, dire la sua e vuotare il sacco, come si dice.
I draft del 1984 hanno
segnato la storia del basket NBA ma soprattutto dei Portland Trail Blazers. Per
molti esperti sono stati i draft più profondi nella storia della Lega, con una
classe di rookie superiore a quella del 2003 (LeBron James, Dwyane Wade,
Carmelo Anthony, Chris Bosh). Quell’anno vennero scelti Hakeem Olajuwon, Michael
Jordan, Charles Barkley e John Stockton. Quello del 1984 fu
l’ultimo draft senza Lotteria. Le peggiori squadre della Eastern Conference e
della Western Conference praticamente venivano convocate dal Commissioner,
David Stern (anche lui era al debutto). Una sceglieva testa e l’altra croce. La
monetina decideva chi avrebbe scelto all’1 e chi al 2.