Mullin era un “brooklyniano” convinto. Nel 1984, prima
del suo ultimo anno a St.John’s, superò le spietate selezioni di Bobby Knight
(che tagliò Charles Barkley, Karl Malone e John Stockton tra gli altri) e si
conquistò un posto nella Nazionale USA ai Giochi di Los Angeles 1984. La
famiglia affittò un appartamento a Malibu per tutta la durata delle Olimpiadi e
non si perse un secondo di Chris. Lui partì in quintetto solo contro il Canada
del suo amico Wennington e segnò 20 punti.
Ma alla fine del torneo vinto dalla
squadra americana era il secondo realizzatore, il terzo passatore, il secondo
rimbalzista di una formazione in cui la stella delle stelle si chiamava Michael
Jordan.
Alla fine delle Olimpiadi i ragazzi d’oro vennero
invitati alla Casa Bianca dal Presidente Ronald Reagan. Mullin sarebbe andato
volentieri “ma era tardi, avevo da prendere l’aereo e tornare a Brooklyn”. Non
ne poteva più di stare lontano da casa. Gli tributarono un’accoglienza da eroe
di ritorno dal fronte. L’anno seguente pilotò St.John’s alle Final Four e fu
scelto nei draft da Golden State: per uno che soffriva di nostalgia se solo provava
ad attraversare il Brooklyn Bridge fu un trauma. Guadagnava bene, giocava
benissimo ma si sentiva solo. La passione per la birra che aveva sempre avuto
diventò incontrollabile. Viveva aspettando di essere scambiato ai Knicks. Ma
non successe mai, era vittima di una solitudine fortissima e giocava per una
squadra che non lo aiutava: “Avevamo troppi giocatori che timbravano il
cartellino”, dichiarò. Se si fermava a tirare dopo l’allenamento veniva
redarguito dai veterani. Si rifugiò sempre più nell’alcool...
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