Nel 1992 ero inviato a Portland per il debutto del Dream
Team. Gli USA non erano i campioni in carica e non erano neppure i campioni del
Mondo. Quindi la più celebrata squadra della storia dovette qualificarsi per le
Olimpiadi di Barcellona attraverso il Preolimpico della zona americana, appunto
a Portland. Era la prima volta che i giocatori della NBA erano ammessi alle
Olimpiadi. Fu una svolta epocale. I grandi giocatori NBA smisero di essere solo
personaggi televisivi riservati ai super appassionati. Diventarono star
planetarie. Il brand NBA esplose in tutto il mondo. E gli stessi giocatori
europei da quel momento cominciarono a guardare alla NBA come ad un obiettivo
non un mondo isolato. Le stesse squadre NBA iniziarono il percorso che ci ha
portato ai 100 stranieri presenti nella NBA, molti da protagonisti e qualcuno
da star conclamata come Pau Gasol o Dirk Nowitzki. Come Manu Ginobili. Fino ad
allora l'interesse per gli europei era stato sporadico e macchiato di
perplessità. Nel 1992 aveva già sfondato Vlade Divac, stava sfondando Drazen
Petrovic, si era affermato Sarunas Marciulionis e Toni Kukoc era oggetto di feroce
corteggiamento. Più da parte del general manager dei Bulls, Jerry Krause, che
dei Bulls intesi come club. Quella è la data in cui tutto cominciò a cambiare.
Dodici anni dopo gli USA arrivarono solo terzi alle Olimpiadi di Atene.
Chiamarono Jerry Colangelo e Mike Krzyzewski a rimettere in piedi la squadra
americana. Nel 2006 Coach K sbagliò ancora tantissimo, fece troppo poco
scouting e troppa poca zona. Gli USA persero la semifinale con la Grecia. Dalla
finale per il terzo posto cominciò la striscia di vittorie attuale. Dal 2004
probabilmente non c’è stata un’Olimpiade in cui siano arrivati così nettamente
favoriti per l’oro. La sensazione è che il gap si stia nuovamente ampliando
perché la concorrenza è meno temibile di qualche anno fa e gli USA adesso si
muovono con serietà e programmazione.
Della trasferta di Portland ricordo che l’aereo da Milano
ruppe un motore e dovette atterrare in emergenza a Parigi. Persi un giorno e il
debutto degli USA contro Cuba oltre che il bagaglio, smarrito in 48 ore
trascorse in giro per il Mondo salendo e scendendo dagli aerei. Ricordo che il
Memorial Coliseum era sempre pieno, che in quei giorni Danny Ainge annunciò il
passaggio da Portland a Phoenix, che da Champions il “refill” di Coca Cola era
compreso nel prezzo e ricordo che Larry Bird, dopo il debutto contro Cuba che
non vidi, non giocò più fino ai minuti conclusivi della finale con il
Venezuela. Il pubblico gridava “Larry Larry”, lui salutò per educazione. Il
grido salì di un ottava. Magic Johnson si alzò e lo spedì di peso in campo.
Non fu un torneo di qualificazione e non fu quella di
Barcellona una Olimpiade competitiva. Gli avversari erano più preoccupati di
farsi firmare autografi e scattare foto – qualcuno esagerando portò la videocamera
in panchina – con gli eroi americani piuttosto che di combatterli in campo. Era
una squadra indimenticabile perché era la prima di quel genere e aveva nomi
incredibili. Almeno tre dei primi 10 giocatori di tutti i tempi erano presenti:
Michael Jordan, Magic Johnson e Larry Bird. Per qualcuno sono tutti tra i primi
cinque della storia. John Stockton, Scottie Pippen, Charles Barkley, Karl
Malone, David Robinson e Patrick Ewing portano a nove il numero di giocatori
del Dream Team tra i primi 30 di sempre. Se aggiungiamo Chris Mullin e Clyde
Drexler potremmo arrivare a 11 dei primi 50, massimo 60 di sempre.
Ma ci sono cose che nella storia del Dream Team spesso
vengono omesse o dimenticate. Ad esempio che era presente un giocatore
convocato politicamente. La USA Basketball decise che un membro della squadra
avrebbe dovuto provenire dal college basketball che fino ad allora aveva
rifornito l’intera squadra nazionale. Scelsero Christian Laettner, un giocatore
bravo che avrebbe avuto una buona carriera NBA ma non c’entrava niente con
quella squadra nel 1992 né era davvero il miglior giocatore di college del
paese. Questo era Shaquille O’Neal. Stranamente mentre sappiamo bene perché
Isiah Thomas sia stato escluso (diktat di Michael Jordan che lo detestava negli
anni della rivalità Chicago-Detroit) nessuno ha mai chiarito davvero perché
Laettner sia stato preferito a O’Neal e ad Alonzo Mourning.
La squadra era in situazione di emergenza totale in termini
di infortuni. Larry Bird era a fine carriera: la finale con la Croazia fu l’ultima
gara della sua storia di giocatore. Giocò sporadicamente sia a Portland che a
Barcellona (un po’ di più ma ad esempio in pratica saltò la finale) perché la
schiena era a pezzi. Rimase n squadra ma non era più in grado di giocare
davvero. Magic Johnson era reduce da un anno di stop, da quando si era ritirato
in seguito alla scoperta della sua condizione di sieropositivo. E infine John Stockton si infortunò a Portland
e arrivò a Barcellona in condizioni precarie (giocò solo quattro gare su otto
per 11 punti totali). Anche lui non cedette il posto e nessuno gli chiese di
farlo perché altrimenti avrebbero dovuto giustificare ulteriormente la
bocciatura di Isiah Thomas. Il dato di fatto è che in quella squadra c’erano
due giocatori infortunati e uno fermo da un anno. Ovviamente nessuno se ne
accorse in campo. Coach Chuck Daly finì l’Olimpiade senza mai chiamare un solo
time-out.
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