Nel 2009 Michael Jordan è
stato ovviamente eletto nella Hall of Fame di Springfield e secondo tradizione
in un lungo discorso ha tratto le somme della sua carriera. Ma il discorso di
Jordan è stato per molti sorprendente nel senso che MJ ha eliminato tutta la canonica
diplomazia di queste occasioni per andare dritto al sodo e spiegare che tutti i
miti riguardanti la sua capacità di automotivarsi trovando stimoli dappertutto
erano… veri.
Molti hanno trovato il
discorso di Jordan, ancora visualizzato tantissimo su youtube, di cattivo
gusto. Era la sua festa perché polemizzare? Ma la realtà è che Jordan voleva,
probabilmente per la prima volta, dire la sua e vuotare il sacco, come si dice.
E’ partito così dal
taglio alla Laney High School che non era un taglio, raccontando di come il suo
allenatore e il giocatore selezionato al posto suo, Leroy Smith, gli abbiano
fornito il pretesto per accendere il fuoco dentro di lui, come avrebbe fatto poi
Buzz Peterson. Il suo amico Buzz Peterson, compagno di squadra a North Carolina,
nominato giocatore dell’anno al liceo. “Come potevano dire che era più bravo di
me se non avevamo mai giocato contro?” Ha menzionato Dean Smith, il maestro che
adorava, Jerry Krause, che detestava e giù fino a chi nel suo primo All-Star
Game in sostanza gli impedì di toccare palla per dargli una lezione.
Nella realtà, Jordan ha
mostrato solo sé stesso. Come giocatore era ovviamente un talento atletico
sensazionale, che ha abbinato con una straordinaria etica e una feroce
motivazione ad un bagaglio tecnico diventato negli anni inappuntabile. Ricordo
che Paul Westphal sosteneva che Jordan sarebbe stato tra i primi cinque della
Lega in qualunque ruolo l’avessero costretto a giocare, anche centro. Su tutto
questo ha infine costruito una forza mentale che non ha precedenti e non è mai
stata avvicinata dai suoi eredi inclusi LeBron James o Kobe Bryant, che forse
come convinzione nei propri mezzi e stile è colui che l’ha avvicinato di più.
Ci sono record di Jordan
che dicono molto: ad esempio non ha mai perso una Finale NBA. Ma quella che
resta incredibile è stata la sua puntualità nell’esprimersi al massimo quando
era necessario farlo. Jordan non ha mai tradito le aspettative. Finale NCAA
1982. Finale Olimpica 1984. Sei Finali NBA. Possiamo andare a caccia di partite
importanti sbagliate ma non erano mai definitive. Nel 1990 perse gara 7 a
Detroit ma fu la partita in cui venne lasciato a piedi da Scottie Pippen. Nel
1995 perse gara 6 in casa contro Orlando ma era appena rientrato dal suo anno e
mezzo sabbatico. La percezione pubblica, in occasione del ritiro dai Bulls
(lasciamo perdere il tentativo di tornare a Washington, in parte ingenuo, in
parte eccessivo ma comunque contrassegnato da momenti importanti, ad esempio il
suo ultimo All-Star Game ad Atlanta), è stata quella di un campione che si
ritira imbattuto. Tutta questa forza interna, questa ferocia, erano innate,
generate forse anche da un’adolescenza che ha voluto far passare come più
felice di quanto dev’essere stata, fino ai suoi primi anni di NBA (il padre
piuttosto vivace, i problemi tra il padre e la figlia, il suo distacco dalla
sorella, la mamma pietra angolare di tutto, le iniziative imprenditoriali del
padre, amatissimo comunque). Ma lui ha coltivato questo fuoco, questa voglia di
arrivare fino a nutrirla persino negli anni in cui non aveva più bisogno di
farlo. Attorno al 1992 il suo status è stato certificato e riconosciuto. Non
c’erano più rivincite da prendersi o dimostrazioni da dare. Eppure… era sempre
lì a caccia di gente che non lo rispettava abbastanza o voleva credere che non
lo rispettasse perché aveva bisogno comunque di un avversario o di una sfida in
cui credere. Michael Jordan è stato il più grande di tutti perché è stato
l’atleta più competitivo che ci sia mai stato: questa è la mia opinione. Ma la
competitività e la forza mentale non sono sempre la stessa cosa. Lui era al top
in entrambe.
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