martedì 10 aprile 2018

MVP Review: la vittoria di Harden e il check-up di tutte le candidature (All in One)

La corsa al titolo di MVP non è stata appassionante come un anno fa quando il mondo si era diviso tra Russell Westbrook, James Harden e nel finale prese quota la candidatura di Kawhi Leonard. Quest’anno Harden vincerà con largo margine sul secondo classificato ed esiste una piccola possibilità che come Steph Curry due anni fa vinca il titolo all’unanimità. Può starci: Harden è il miglior giocatore della miglior squadra della stagione, quella che ha stabilito il nuovo record franchigia di vittorie, ed è il miglior realizzatore della Lega, oltre i 30 di media. Quest’anno Harden figurerà per il quarto anno consecutivo nel primo quintetto All-NBA e in passato è arrivato due volte secondo nella corsa all’MVP.
La stagione passata venne battuto da Westbrook a causa dell’unicità della stagione del razzo di OKC. Non era solo una questione di tripla doppia ma di tripla doppia ottenuta come primo realizzatore della Lega, come secondo nella classifica degli assist in una squadra sprovvista di munizioni, orfana inattesa di Kevin Durant. Quest’anno, con un supporting cast superiore, Westbrook è salito sul trono degli assist ed è scivolato indietro nella classifica marcatori. La sua stagione non è stata necessariamente inferiore alla precedente (9.7 rimbalzi di media, la tripla doppia è di nuovo ad un passo) ma la percezione è cambiata. Un anno fa Westbrook era considerato il solista che si metteva la squadra sulle spalle confezionando una stagione di storiche dimensioni. Quest’anno è lo stesso giocatore ma dai Thunder ci si aspettava un rendimento di squadra superiore: quello che la scorsa stagione non l’aveva condizionato, quest’anno l’ha fatto.
E sono proprio i risultati di squadra a incoronare Harden. Le sue cifre raccontano di una stagione strepitosa, influenzata dal ruolo che non è stato lo stesso di un anno fa. La prima scelta di Mike D’Antoni a Houston è stata consegnargli la palla e trasformarlo nel point-man a tempo pieno dei Rockets. Harden ha risposto vincendo la classifica degli assist e segnando 29.1 punti a partita. Un anno dopo, è arrivato Chris Paul e il suo ruolo si è ribaltato. Harden ha giocato da point-man il 16% del tempo trascorso in campo e l’84% rimanente l’ha utilizzato da guardia in un quintetto tradizionale o con tre piccoli. Il risultato è che ha segnato di più, 31 per gara, tirato di più e perso per strada due assist e mezzo a partita. Il ruolo ha dettato i numeri. Anche le 4.3 palle perse sono significative: con la palla sempre in mano erano 5.7 l’anno scorso.
E’ attaccabile la candidatura di Harden? Solo in parte. Considerando candidabili oltre a lui, LeBron James, Kevin Durant, Anthony Davis e Russell, Damian Lillard e Russell Westbrook, ci sono numeri che suggeriscono di guardare anche altrove. LeBron ha catturato più rimbalzi e dato via più assist; solo Lillard ha tirato con percentuali inferiori dal campo; tutti tranne Lillard hanno catturato più rimbalzi e Westbrook – che ha taglia fisica simile – l’ha quasi doppiato; Kevin Durant ha tirato molto meglio di lui dal campo (come anche Giannis Antetokounmpo per la verità almeno menzionabile) e da tre punti ovviamente; solo Westbrook tra questi ha più palle perse.
Ma Harden merita questo MVP: anche il drastico declino del numero di rimbalzi (da 8.1 a 5.3) è cancellato dalle vittorie di squadra. Probabile che un anno fa Harden andasse a rimbalzo di più per impossessarsi subito della palla mentre ora è più propenso a sganciarsi in contropiede fidandosi di Chris Paul, ovviamente, mentre Clint Capela controlla il 31% dei rimbalzi difensivi disponibili ed erano il 22% l’anno scorso. Lo svizzero è protagonista di una crescita costante come giocatore e potrebbe essere meritevole del premio di elemento più progredito dell’anno (14.0 punti, 10.9 rimbalzi, 65.1% dal campo). Capela ha 23 anni e all’inizio della passata stagione venne promosso in quintetto nel momento della partenza di Dwight Howard. Qualcuno ha mai pensato per un momento che i Rockets abbiano pagato lo “scambio”? Non solo per il gioco di D’Antoni un “Rim Runner” come Capela è molto più adatto di una presenza in post basso, ma tutti i parametri suggerivano che Capela avesse solo bisogno di spazio per esplodere.
Harden sarà dunque l’MVP per una squadra che ha vinto due titoli, giocato quattro finali e mai aveva superato la soglia delle 60 vittorie stagionali. Con due secondi posti e un MVP, Harden entra di diritto nella galleria delle più grandi guardie di tutti i tempi.
ANTETOKOUNMPO
Giannis Antetokounmpo per una porzione di stagione era stato considerato un legittimo candidato MVP poi sono successe tante cose, ma soprattutto i Milwaukee Bucks sono scivolati indietro nella classifica della Eastern Conference esattamente nella stagione in cui, date le circostanze, avrebbero almeno potuto prendersi il vantaggio del campo nel primo turno. 
Giannis è un “five-tool player” come dicono nel baseball. Da quando è entrato nella NBA grazie al suo fisico irreale e la duttilità ha giocato effettivamente in tutti i ruoli mostrando un ventaglio di caratteristiche totale. Sotto certi aspetti può essere anche limitativo: Giannis è un ibrido senza ruolo. Da rookie giocava da ala piccola e qualche volta da ala grande quando i Bucks si abbassavano. Jason Kidd aveva spiazzato tutti dichiarandolo la point-guard della sua squadra ma poi con Malcolm Brogdon l’anno passato e ancora di più Eric Bledose quest’anno, il suo ruolo è sempre più diventato indecifrabile. Secondo basketball-reference il 93% del tempo quest’anno l’ha speso da ala forte. Ovviamente non è una classica ala forte almeno in attacco. Non è nemmeno chiaro quanto sia stato penalizzato dall’esonero di Kidd con cui sembrava avere un rapporto molto stretto. Pare si sia anche offerto di scongiurare il licenziamento, ma non è successo.
Tuttavia la stagione di Antetokounmpo resta non solo di altissimo livello ma anche di crescita, tipico dei giocatori di 23 anni arrivati nella NBA molto presto. Ha aumentato i punti, i tiri e le percentuali. L’ultimo dato è il più significativo: aumenta la quantità ma anche la qualità quindi l’ampliamento delle responsabilità va di pari passo con l’efficacia. Giannis ha leggermente ridotto il numero di tiri da tre (il suo punto debole, 29.5%) ma aumentato quelli da due. Dal campo ha il 53.2%, top in carriera, la percentuale effettiva è del 54.6%, top in carriera, gli 8.8 tiri liberi procurati per gara sono il top in carriera, come i 10.0 rimbalzi, i 27.3 punti. Quest’anno ha catturato il 25% abbondante dei rimbalzi disponibili sotto il canestro dei Bucks, una cifra altissima, probabilmente generata dall’utilizzo da ala forte almeno nella propria metà campo. Sono diminuiti solo gli assist ma con Bledsoe e Brogdon nella stessa squadra è chiaro che la palla in mano gli arriva spesso in un secondo momento e con un maggior obbligo di “finire”.
E’ anche giusto dire che i Bucks come sono stati concepiti non sono perfetti per le sue caratteristiche. Giannis è uno slasher che avrebbe bisogno di attaccare aree non congestionate. Perché questo succeda occorrono i tiratori. E Milwaukee non li ha. La squadra è la 27° per tiri da tre segnati e 26° per tiri da tre presi. In stagione ha eseguito circa 200 tiri da tre in meno degli avversari diretti. L’unico vero tiratore della rotazione è Tony Snell. Bledose, Khris Middleton, Matthew Dellavedova sono discreti tiratori ma nessuno può davvero aprire il campo quando le difese tendono a non uscire comunque, temendo le rappresaglie di Giannis. E’ vero che i Bucks per tre quarti di stagione non hanno avuto il talento di Jabari Parker ma per massimizzare Giannis è inevitabile allargare di più il campo. Dovranno tenerne conto in futuro. Antetokounmpo è uno dei primi dieci giocatori del mondo, probabilmente anche meglio. Essendo sotto contratto fino al 2021 il tempo per assemblare una grande squadra accanto a lui non manca ma Milwaukee non è una free-agent destination e dai draft non arriverà granché. Quindi il management deve trovare le pedine giuste per valorizzarlo.
LILLARD
Damian Lillard ha 27 anni e per la quinta stagione consecutiva sarà oltre i 20 punti di media oppure oltre i 25 per la terza. Eppure resta un giocatore difficile da interpretare. In parte è una questione logistica: Lillard ha giocato a Weber State dove l’esposizione è limitata, poi è stato scelto nella seconda parte del primo giro del draft quindi con modeste aspettative e infine è finito a Portland. Non è un mistero che giocare a tre ore di fuso orario dalla costa est è penalizzante, soprattutto se non lo fai a Los Angeles ma in un mercato limitato come quello di Portland. Avesse giocato a New York è probabile – sicuro? – che la popolarità di Lillard sarebbe stata diversa.
In fondo è un point-man che segna tantissimo, un killer nel quarto periodo, uno dei miglior Clutch-Scorer della Lega. Eppure è entrato come outsider nella conversazione come potenziale MVP solo nelle ultime settimane, quelle in cui i Portland Trail Blazers, correndo un po’ di più, tirando un po’ più da tre, sfruttando la crescita di qualche elemento di teorico secondo piano come il rookie Zach Collins, sono diventati non una semplice mina vagante ma una squadra che entrerà nei playoff reduce da una seconda parte di stagione fulminante. A Ovest solo Houston è stata superiore a Portland nell’ultimo mese e mezzo.
Intendiamoci: Lillard non è il miglior giocatore di questa Lega. Considerando i primi 15 realizzatori solo Devin Booker, che gioca per una delle peggiori squadre della Lega, ha percentuali di tiro inferiori alle sue, segno che le scelte non sono le migliori, cattura meno della metà dei rimbalzi di Russell Westbrook ma è anche sotto la media di Steph Curry in questo senso, e per essere un point-man forse non crea abbastanza per i compagni (12 giocatori lo precedono negli assist). Non sono necessariamente critiche ma argomentazioni che difendono il suo ruolo costantemente di secondo piano quando si discute dei migliori point-guard della Lega. E’ un attaccante micidiale ma è sotto il 37% da tre ad esempio.
Lillard è un giocatore di elite, che merita l’inclusione in uno dei quintetti All-NBA di fine stagione (io lo metterei nel secondo), è un legittimo Top 10 Player ma non l’MVP. Non è al livello di James Harden e non è un all-around come Westbrook (anche se Portland quest’anno non ha mai perso contro OKC) o un tiratore come Steph Curry. Però ha numeri migliori, in tutto, di Kyrie Irving, punti, rimbalzi, assist.
Ma Irving fino a quando Boston ha comandato la Eastern Conference e non si è infortunato è stato un candidato MVP. Magari mai in pole-position ma è stato menzionato. Possibile che in un’era come quella attuale giocare a Boston aiuti più che giocare a Portland?
Può sembrare un’esagerazione includere DeMar DeRozan in una qualsiasi conversazione sull’MVP di questa stagione soprattutto considerando le cifre nude e crude. DeRozan, che è una guardia di alto livello da almeno cinque anni, sta segnando circa quattro punti a partita in meno dei 27.3 di una stagione addietro (record carriera) ed è passato da 5.2 a 3.9 rimbalzi per gara. Va anche meno spesso in lunetta (da 8.7 viaggi a 7.2) e sarebbe limitativo attribuire questa minor produttività al minutaggio. Dwane Casey lo impiega 34 minuti di media, contro gli oltre 35 di un anno fa, un decremento nel complesso trascurabile.
DEROZAN
Ma questa è la stagione in cui DeRozan ha visto la sua credibilità come star esplodere. In parte, discorso già fatto per Damian Lillard, non lo aiuta la milizia nei Toronto Raptors. Nella coscienza collettiva, Toronto non è una franchigia di riferimento e il Canada non è un territorio cestistico. Toronto come città lo è anche meno: è la capitale dell’hockey nel Nord-America. Quando i Raptors nacquero nel 1996, il club dedicò una sezione della sua media-guide alla spiegazione delle regole fondamentali del basket e ai termini che sarebbe stato opportuno conoscere. Le vittorie di Toronto, che non è mai stata la squadra migliore della Eastern Conference e non è mai stata davvero la favorita per approdare in finale (quest’anno potrebbe esserlo), hanno in parte cambiato questo status e attribuito a DeRozan quella credibilità che ha faticato a ricevere.
Ma non è solo questo: le vittorie hanno aiutato DeRozan ma DeRozan ha aiutato le vittorie. Il suo gioco si è evoluto: tira meglio (non bene, resta uomo da 32 % scarso) da tre e questo allarga il campo per le penetrazioni e per il gioco in post basso di Jonas Valanciunas, gioca meno da terminale e più da facilitatore. Infatti il numero di assist ha compiuto il percorso inverso rispetto ai rimbalzi. Da 3.9 a 5.1. DeRozan è sempre stato una guardia che finalizza. Ora ha imparato a usare la propria pericolosità e le attenzioni difensive a favore dei compagni.
Nelle mie valutazioni è da secondo quintetto All-NBA con Damian Lillard e Steph Curry in un assetto virtuale con tre guardie ed è un Top 10-12 della Lega. La grande sfida di Toronto in fondo è questa: giocarsi il titolo senza una vera superstar dominante. Ammesso che DeRozan non lo sia. 
DURANT E CURRY
Nel momento stesso in cui due estati fa Kevin Durant scelse di portare il suo talento sulla Baia, istantaneamente le sue possibilità di vincere un secondo MVP dopo quello conquistato con Oklahoma City nel 2014 si sono ridotte. E per osmosi si sono ridotte anche quelle di Stephen Curry. Succede sempre quando un superteam non ha un chiaro leader. A Miami era LeBron James pur arrivando lui, da esterno, nella squadra di Dwyane Wade; ai Lakers di inizio secolo il leader era Shaquille O’Neal e Kobe Bryant è diventato un candidato MVP solo quando Shaq è stato ceduto a Miami; a Houston, Chris Paul è andato a fortificare i Rockets che restano la squadra di James Harden. Durant era il numero 1 a OKC. Probabilmente, Russell Westbrook non sarebbe mai stato l’MVP della Lega se KD non fosse andato mai andato via. Forse.
Durant ha deciso di giocare nei Warriors che avevano già vinto prima di lui. Durant è troppo forte e nel “prime time” della propria carriera: può essere un numero 2 mediatico, in termini di leadership interna ma sul piano tecnico in nessuna squadra del mondo oggi può essere… Scottie Pippen. Ma Curry è stato due volte MVP, una volta MVP unanime. Ha rivoluzionato il gioco, trasformando tiri da tre tatticamente irresponsabili in un’arma letale. I Warrior sono un anomalo caso di squadra con due numeri 1. La conseguenza è che sono sempre la squadra da battere, la più temuta e rispettata. Il rovescio della medaglia è che le due super-superstar si ostacolano a vicenda nella raccolta di premi individuali. In fondo, lo sapevano: Durant non è andato a Oakland per essere l’MVP della regular season ma per esserlo della Finale. E lo è stato.
Ecco perché due stelle di questo genere non hanno mai davvero avuto la possibilità di essere MVP stagionali. Durant non può avere cifre migliori di quelle di LeBron James (meno punti, meno rimbalzi, meno assist e anche percentuali dal campo inferiori). Curry resta il miglior tiratore della Lega per distacco: questa è la sua nona stagione su nove oltre il 40 % nel tiro da tre sfiorando le 10 conclusioni a partita. Infatti la sua percentuale di tiro effettiva è del 61.8 %. Per una guardia è irreale. Ma Curry naturalmente non può reggere il confronto con la sua memorabile stagione 2015/16, quella da MVP unanime, che resta forse irriproducibile per chiunque e una delle più grandi regular season individuali di tutti i tempi. Ma è ovvio che anche lui ha lasciato per strada cinque punti a partita accogliendo Durant. E’ normale.
Ci sono altre due ragioni che chiudono la strada a Curry e Durant. Golden State ha vinto meno di Houston. La considerazione, ricordando quanto siano forti i Warriors, è il miglior argomento a favore di James Harden ovviamente. La seconda ragione riguarda gli infortuni: il numero di partite saltate da Durant è accettabile, ma Curry ne ha giocate solo 51 e proprio per questo sparirà dalle classifiche individuali. Le sue 51 partite sono state eccellenti e dovrebbero garantirgli comunque un posto nel secondo quintetto All-NBA ma non possono portarlo più avanti. Durant invece, con Kawhi Leonard fuori concorso quest’anno, sarà certamente primo quintetto All-NBA da ala accanto a LeBron.
La sua stagione dunque: di tutti i “top player”, ad eccezione ovviamente di Steph Curry, Durant è stato il miglior tiratore da tre. Come era prevedibile, passando a Golden State, ha potuto sfruttare gli spazi creati dai compagni e alzare le percentuali e la propria efficienza su un livello che a OKC non era stato possibile raggiungere. Per capirci: il 42.9% da tre è la più alta media in carriera; il 59.2% di percentuale effettiva è in linea con quello dell’anno passato e superiore a tutte le stagioni precedenti. Ma balzano agli occhi anche altre cose: non tanto i 5.4 assist di media, agevolati dalla vicinanza di tanti tiratori, quanto il top in carriera nelle stoppate che conferma le sue qualità difensive. In negativo però ci sono i 6.7 rimbalzi, il minimo dal 2009, i tiri liberi ovvero 5.8 a partita, il minimo dalla sua stagione da rookie. Cosa significa? Durant quest’anno ha giocato il 77% del proprio minutaggio da ala forte nominale, cioè accanto a tre piccoli il che avrebbe dovuto favorirlo come rimbalzista, non danneggiarlo. Che vada meno in lunetta (0.4 a partita giocando però un minuto in più) è un altro sintomo inatteso.
In generale, la stagione di Durant resta di altissimo livello ma senza dubbio condizionata dalla vicinanza con altri fenomeni, soprattutto quando ha giocato Curry, e dagli infortuni. Resta una stagione da Top 5, non da MVP, ma è vero che nel momento stesso in cui è andato ai Warriors, Durant ha deciso di essere giudicato dopo i playoffs. Non prima.
RUSSELL WESTBROOK
Da un punto di vista strettamente individuale, nonostante i ben noti difetti (tiro da tre sotto il 30 %, qualche volta resiste alla tentazione di usarlo, spesso no, specie nei finali di gara, ma lui è così, agonista anche nello sfidare i propri limiti) o la tendenza a esagerare, Russell Westbrook potrebbe essere confermato MVP della stagione. Perché no? Ha vinto la classifica degli assist così autorizzandosi a cedere a James Harden lo scettro di miglior realizzatore della Lega e ha virtualmente viaggiato ad una tripla doppia di media per il secondo anno consecutivo. I Thunder accanto a lui sono cambiati tanto e hanno inciso anche sulla sua stagione: ha tirato meno (soprattutto da tre), ha tirato meglio (45 %), ha segnato meno perché è andato meno in lunetta, ha “usato” il 34.3% dei possessi di Oklahoma City contro il 41.7% di un anno fa, cifra record. Ha assistito quasi il 50 % dei canestri segnati dai compagni con lui in campo. Perché quindi Westbrook non dovrebbe essere l’MVP?
Ci sono due motivi: la stagione di James Harden è stata troppo buona e assistita dai risultati dei Rockets perché gli venga tolto il trofeo in un anno in cui è anche il capocannoniere della Lega; e Oklahoma City non ha vinto abbastanza. Era vero anche l’anno passato: il principale ostacolo incontrato da Westbrook nella sua corsa al titolo di MVP era nel numero di vittorie dei Thunder, sotto l’eccellenza delle 50. Ma la squadra di un anno fa era oggettivamente mediocre, orfana di Kevin Durant e con un Victor Oladipo buono ma non buono com’è diventato quest’anno a Indiana. Westbrook ha trascinato la squadra: più di così non poteva fare. 
Ma quest’anno i Thunder hanno aggiunto Paul George, un Top 15 almeno, più Carmelo Anthony come terza punta e la presenza di queste bocche da fuoco ha restituito a Steven Adams la possibilità di attaccare l’area dei tre secondi con risultati eccellenti. I Thunder avrebbero dovuto vincere di più, non si scappa, anche mettendo in conto l'infortunio ad Andre Roberson (peraltro Corey Brewer lo sta sostituendo come meglio non avrebbe potuto, meno difesa certo ma molto più attacco ed è tutto dire). La panchina è scarsa. Patrick Patterson è rimasto al di sotto degli standard di Toronto e per la verità è stato usato principalmente come cambio di Adams (via Enes Kanter, non hanno un centro di riserva credibile), non necessariamente il ruolo perfetto. I bomber Alex Abrines e Terrance Ferguson hanno fatto dentro e fuori dalla rotazione. Le riserve migliori sono stati Raymond Felton e naturalmente Jerani Grant, un atleta straordinario, multifunzionale. La stagione dei Thunder è da tutto o niente: rifirmato Westbrook, resta l’incognita Paul George. I conti si faranno dopo i playoffs: lo star-system allestito da Sam Presti potrebbe anche sorprendere. Ma la regular season è stata insufficiente. Ecco perché metterei Westbrook nel primo quintetto All-NBA ma non tra i primi tre giocatori della stagione. Dopo Harden, tocca ad Anthony Davis e LeBron James.
ANTHONY DAVIS
Considerato che i New Orleans Pelicans avrebbero dovuto sparire dalla corsa ai playoffs nel momento stesso in cui hanno perso per infortunio DeMarcus Cousins – i cui numeri restano sensazionali -, la stagione di Anthony Davis – The Brow – è stata naturalmente stupefacente. Non è una sorpresa: Davis è il capostipite della generazione dei centri che possono difendere sul perimetro oltre che al ferro, attaccare dal palleggio oltre che dentro l’area ed essere decentemente pericolosi da fuori. Vengono in mente Karl-Anthony Towns e Joel Embiid. Tutti questi giocatori sono sempre considerati ibridi nel senso che la tendenza è quella di accoppiarli a centri veri, teoricamente deputati a svolgere un po’ di lavoro sporco e fisico, ma il rendimento generalmente è migliore quando possono fare a meno di tale compagnia.
Davis quest’anno ha giocato 50-50, metà del tempo da ala e metà da ala grande. Visto che Cousins tirava da tre con facilità e che lui ha il 74.3% nelle conclusioni al ferro o in prossimità del ferro, lo spazio per aggredire l’area non è mai mancato. In ogni caso, pur ritenendolo probabilmente il terzo miglior giocatore di questa stagione, è virtualmente impossibile non considerarlo largamente il centro del primo quintetto All-NBA della stagione.
L’evoluzione di Davis è sensazionale: quando giocava a Kentucky, un solo anno anche se travolgente, era considerato soprattutto un devastante difensore. La sua crescita somiglia tantissimo a quella che ebbe Patrick Ewing: a Georgetown era ritenuto un difensore d’elite ma un attaccante da sgrezzare, ma nella NBA si è imposto prima sul versante offensivo che su quello difensivo. Per Davis è stato lo stesso.
Al momento è un attaccante incredibile, che ha raggiunto un’apprezzabile pericolosità anche da tre punti quindi è virtualmente immarcabile se non da un giocatore simile a lui come statura, atletismo e rapidità. E ha solo 24 anni. Al di là dei numeri (28.1 punti, oltre 11 rimbalzi, primo stoppatore della Lega), Davis ha un “rating” offensivo di 119 punti per 100 possessi: i Pels hanno 109. In difesa ha un “rating” di 104. I Pelicans come squadra sono vicini ai 109 punti concessi per 100 possessi. Fa la differenza su ambedue i lati del campo. Stephen Jackson l’ha definito un Tim Duncan più atletico e ovviamente senza i San Antonio Spurs accanto. Volendo trovargli un difetto, chiaramente è un finalizzatore che coinvolge poco i compagni. Per dire: Cousins, che ha più del doppio dei suoi assist, “assiste” il 23% dei canestri dei compagni, lui è sotto l’11%. 
Il più grande ostacolo alla sua candidatura ad MVP in realtà sono le vittorie di squadra ma chi tra i top ha perso il miglior compagno di squadra? Chi ha un supporting cast così modesto a dispetto dell’addizione di Nikola Mirotic e la presenza di un point-man “old school” quale Rajon Rondo nella posizione di JRue Holiday? Davis è un MVP in costruzione ma la domanda a cui tutta la NBA attende una risposta è fino a quando sarà appagato dalla milizia in una squadra impantanata in una zona della classifica che non può produrre nulla. La mossa che farà Cousins in estate potrebbe chiarire molte cose.  
LEBRON
LeBron James aveva cominciato questa stagione con l'atteggiamento di un uomo in missione. Sembrava volesse appropriarsi per acclamazione del titolo di MVP, un modo inequivocabile per mettere a tacere ogni argomento di discussione su chi sia il miglior giocatore del mondo o su un suo presunto declino. Le difficoltà di Cleveland, con la conseguente rivoluzione del roster, hanno determinato una sorta di passaggio a vuoto, anche mentale, attorno a metà stagione in cui James Harden nella percezione pubblica ha allungato decisamente, lasciandoselo alle spalle. Così probabilmente LeBron non sarà l'MVP della stagione. Non si aggiudica il trofeo dal 2014. Guardando all'età verrebbe da dire che è normale: superati i 33 anni, sarebbe legittimo si risparmiasse durante la regular season per dare il meglio nei playoffs. Non dimentichiamo che LeBron gioca la Finale ininterrottamente dal 2011 (sono sette di fila praticamente due anni di carriera supplementari).
Ma non è così: ad eccezione dei tiri liberi, vero anche se scostante tallone d'Achille (è sotto il 73%, comunque meglio dell'anno passato), in tutte le statistiche LeBron è oltre le medie carriera. Segna di più, tira meglio, cattura più rimbalzi, distribuisce più assist. Anche come tiratore da tre è oltre. Sta finendo l'anno vicino ai nove rimbalzi e oltre i nove assist per gara, quindi è dalle parti di Russell Westbrook come cifre globali. Non segnava 27.7 punti di media dal 2011. E per la terza volta, la seconda consecutiva, guiderà la Lega in minuti di impiego per gara. A conferma che si tratta di un vero "Ironman" che sta riscrivendo tutte le regole di durata e longevità ai massimi livello di rendimento.Infatti anche se la stagione di James Harden e le vittorie dei Rockets - Cleveland ha avuto una regular season nel complesso inferiore alle aspettative o alle ambizioni - gli impediranno di essere l'MVP, LeBron è legittimamente stato il numero due della stagione ed è certamente destinato a finire nel primo quintetto All-NBA. Per essere chiari, è dal 2007/08 compreso che viene incluso nel primo quintetto stagionale. Non fa neppure notizia o sensazione, soprattutto in una stagione in cui per la prima volta da molti anni la sua squadra non è la favorita per il titolo della Eastern Conference, non è detto arrivi in finale e soprattutto la sua decisione riguardo il proprio futuro tiene banco da mesi, senza che sia emersa un'indicazione concreta se non quelle suggestive di un trasferimento sulla costa ovest per rifare grandi i Lakers (ma in quanto tempo?), un'unione delle forze con Chris Paul e James Harden a Houston (ma somiglierebbe troppo a quello che ha fatto due anni fa Kevin Durant) o addirittura a Philadelphia con l'erede Ben Simmons e Joel Embiid ma con mille altri dubbi sull'opportunità di farlo davvero dei quali si parlerà per giorni dopo i playoffs.
In definitiva, chiusa la carrellata dei potenziali MVP con James Harden legittimo vincitore, questi sono i miei tre quintetti All-NBA, cercando di rimanere il più agganciato possibile ai ruoli pur sapendo che al momento la NBA è più ricca di guardie che di ali e che i centri non sono mai centri veri.

Primo quintetto
Guardie: James Harden, Russell Westbrook
Ali: Kevin Durant, LeBron James
Centro: Anthony Davis
Secondo quintetto
Guardie: Damian Lillard, Stephen Curry
Ali: Giannis Antetokounmpo, LaMarcus Aldridge
Centro: Joel Embiid
Terzo quintetto
Guardie: Kyrie Irving, DeMar DeRozan
Ali: Jimmy Butler, Karl-Anthony Towns
Centro: Nikola Jokic

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