Da tre anni i Los Angeles Lakers non giocano i playoffs.
Nella loro storia non era mai successo per tre anni di fila. Le 17
vittorie e 65 sconfitte dell’ultima stagione sono record negativo di
franchigia. I Lakers non sono abituati a perdere con questa
costanza. Jim Buss, il figlio del defunto leggendario Jerry Buss, si è
dato una
finestra di tre anni che scadono al termine della prossima stagione per
rimettere l’armata gialloviola sulla retta via. Altrimenti si farà da
parte,
ammetterà il proprio fallimento e lascerà il posto a qualcun altro
portandosi
dietro Mitch Kupchak, general manager storico, ex delfino e braccio
destro di
Jerry West. Questo è il piano ufficiale.
Ma la nuova stagione, cominciata in sostanza con il draft
del 23 giugno, rappresenta una sorta di anno zero per i Lakers. Non hanno più
la presenza alla fine diventata ingombrante di Kobe Bryant,
hanno un nuovo coach, tanti giovani e avevano/hanno una montagna di soldi spendibili,
persino troppi per una squadra che parte da troppo lontano per essere subito
pericolosa.
Storicamente, i Lakers sono stati sempre una franchigia al top, un
modello e la destinazione numero 1 per tutti i free-agent. Ma viviamo in una
nuova era. La mossa di Dwight Howard – lasciare i Lakers per i Rockets – era stata
a suo modo rivoluzionaria, inedita. I grandi free-agent hanno sempre fatto il contrario.
Quest'anno i Lakers non sono neppure riusciti a farsi ricevere da Kevin Durant. In più la franchigia è rimasta aggrappata ad un modello di comportamento antico,
molto legato all’immagine di Los Angeles, alle luci di Hollywood, allo stile di vita
della Southern California, ma cestisticamente involuto. L’ha detto Luke Walton
insediandosi come allenatore. Porterà una cultura diversa, le statistiche
avanzate, un modo nuovo di guardare dentro la squadra.
Quando il giovane Pat Riley diventò il capo allenatore dei
Lakers nel 1981, impose una mentalità molto moderna, l’uso del video anche durante l’intervallo,
la nomina nel suo staff tecnico di un “video-coordinator”. Poi i Lakers si sono
fermati. Hanno sbagliato molti allenatori, Rudy Tomjanovich che era a fine
corsa, Mike Brown che era sopravvalutato, Mike D’Antoni che non era adatto e
pagò il peccato originale di essere stato preferito al terzo ritorno di Phil
Jackson, poi Byron Scott, un membro della famiglia con un buon rapporto con
Bryant ma declinante. Luke Walton è stato una scelta logica e di rottura al
tempo stesso. E’ uno di famiglia, perché ha giocato nove anni nei Lakers e ha
vinto due titoli, di rottura perché è il più giovane allenatore della Lega, non
ha esperienza (attenti: nemmeno Pat Riley l’aveva e l’età era la stessa, 36 anni) da
capo allenatore (si potrebbe obiettare che ha diretto i Warriors per 43
partite), perché vede il basket in modo moderno e imporrà una filosofia nuova.
Ha quattro anni di contratto e un quinto opzionale. Avrà bisogno di tempo per
costruire una squadra da zero. E pazienza perché Steve Kerr a Golden State ha
ereditato Steph Curry, Klay Thompson, Andre Iguodala e si è trovato per le mani
Draymond Green oltre che una squadra da oltre 50 vittorie l’anno prima. Ma lui?
Walton ereditata un manipolo di buoni giovani come D'Angelo Russell o Larry Nance jr (fortificato da Brandon Ingram, il numero 2 del draft), ma la squadra
è tutta da inventare. Luol Deng aiuterà tantissimo, Timofey Mozgov è stata un'addizione costosa e strana. Però questi Lakers hanno un vantaggio sicuro: per quanto possa sembrare
strano la scelta dell’allenatore è stata una mossa degna dei vecchi tempi. Tutti
volevano Walton, l’hanno preso loro. Erano secoli che non mettevano a segno un
colpo paragonabile a questo sul mercato dei free-agent. Persino Bill Walton
aveva sconsigliato il figlio di accettare. E’ probabile che se non fossero
stati i Lakers a chiamarlo, avrebbe continuato ad assistere Steve Kerr. Ma
certi treni passano una volta sola.
E’ comico pensare che due anni fa Walton era uno degli assistenti
dei D-fenders della D-League, quindi lavorava già per il farm-team
dei Lakers.
Poi è stato il secondo assistente di Kerr: se Alvin Gentry non fosse
andato a
New Orleans dopo il titolo di Golden State, sarebbe stato lui, Gentry, a
sostituire Kerr per 43 gare della stagione scorsa. E Walton non avrebbe
sollecitato tante attenzioni. Ha colto l’attimo. La NBA è la patria dei
“se” e
dei “ma”. Cosa sarebbe successo se Portland avesse scelto Michael Jordan
nel
1984, se avesse scelto Kevin Durant e non Greg Oden eccetera.Ma con i se
non si fa la storia. Walton invece vuole farla. Nessuno può dirsi certo
che sia un grande allenatore. Ma nessuna scelta avrebbe generato questo
tipo di consensi, sui media, presso il pubblico e i giocatori.
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