martedì 1 novembre 2016

Come nacque la "Linsanity"




Con il senno di poi ha perfettamente senso che la più incredibilmente rapida ascesa dal nulla a fenomeno globale – con ridiscesa sul pianeta Terra ma comunque sempre nel regno dei milionari dei canestri della NBA – sia andata in scena nella più incredibile città del mondo. Nell’inverno del 2011, un playmaker di origini taiwanesi, fresco di laurea ad Harvard, università tra le più note al mondo ma non certo per la produzione di giocatori di basket, Jeremy Lin aveva già raggiunto un accordo con la squadra italiana di Teramo. Era in corso il lock-out e Lin pensò che quella fosse la sua strada.
Da rookie aveva giocato 29 partite a Golden State senza lasciare il segno. Ma mentre si apprestava a prendere il volo per l’Italia, Lin venne informato che il lock-out era terminato e lui poteva riprovarci al camp dei Golden State Warriors. Per un ragazzo cresciuto a Palo Alto con il sogno di diventare un giocatore non c’era niente di meglio. Ma i Warriors lo tagliarono, i Rockets lo presero dal marciapiede salvo augurargli un “Buon 2012” tagliandolo a loro volta la notte di San Silvestro. Jeremy Lin ripiegò su Erie, la squadra della D-League controllata dai New York Knicks, all’epoca allenati da Mike D’Antoni che come allenatore con i playmaker è sempre andato d’accordo.
Baron Davis, a fine carriera, era infortunato e i Knicks cavalcavano una striscia di 11 sconfitte in 13 gare. Non erano i Knicks che D’Antoni aveva sognato. Era stato portato a Manhattan da Donnie Walsh, nativo di Brooklyn, molto rispettato e quasi imposto dal commissioner di allora, David Stern, perché la franchigia di riferimento di tutta la Lega finisse in buone mani dopo i tanti disastri anche mediatici delle stagioni precedenti. Stavano facendo un buon lavoro costruendo su giovani in gamba come Danilo Gallinari, Wilson Chandler, Timofey Mozgov, Raymond Felton, Landry Fields e poi dal mercato dei free-agent del 2010, nell’impossibilità di arrivare a LeBron James, Dwyane Wade e Chris Bosh, avevano preso Amar’e Stoudemire che con D’Antoni aveva giocato benissimo a Phoenix e il cui unico problema era doverlo pagare come una star destinata a giocare cinque anni da MVP ma con le ginocchia di chi al massimo avrebbe dato due o tre anni ad alto livello come poi è stato. Solo che Carmelo Anthony prima di diventare free-agent era stato messo sul mercato dai Denver Nuggets e nel timore che finisse ai Nets, il proprietario James Dolan aveva preteso che i Knicks lo prendessero subito smantellando la squadra. E Walsh, prima di andarsene, dovette eseguire. D’Antoni si trovò per le mani una squadra che non era la sua. Ma provò a farla funzionare lo stesso.

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