Con il senno di poi ha perfettamente senso che la più incredibilmente
rapida ascesa dal nulla a fenomeno globale – con ridiscesa sul pianeta Terra ma
comunque sempre nel regno dei milionari dei canestri della NBA – sia andata in
scena nella più incredibile città del mondo. Nell’inverno del 2011, un playmaker
di origini taiwanesi, fresco di laurea ad Harvard, università tra le più note
al mondo ma non certo per la produzione di giocatori di basket, Jeremy Lin
aveva già raggiunto un accordo con la squadra italiana di Teramo. Era in corso
il lock-out e Lin pensò che quella fosse la sua strada.
Da rookie aveva giocato
29 partite a Golden State senza lasciare il segno. Ma mentre si apprestava a
prendere il volo per l’Italia, Lin venne informato che il lock-out era
terminato e lui poteva riprovarci al camp dei Golden State Warriors. Per un
ragazzo cresciuto a Palo Alto con il sogno di diventare un giocatore non c’era
niente di meglio. Ma i Warriors lo tagliarono, i Rockets lo presero dal
marciapiede salvo augurargli un “Buon 2012” tagliandolo a loro volta la notte di
San Silvestro. Jeremy Lin ripiegò su Erie, la squadra della D-League
controllata dai New York Knicks, all’epoca allenati da Mike D’Antoni che come
allenatore con i playmaker è sempre andato d’accordo.
Baron Davis, a fine carriera, era infortunato e i Knicks cavalcavano una
striscia di 11 sconfitte in 13 gare. Non erano i Knicks che D’Antoni aveva
sognato. Era stato portato a Manhattan da Donnie Walsh, nativo di Brooklyn,
molto rispettato e quasi imposto dal commissioner di allora, David Stern,
perché la franchigia di riferimento di tutta la Lega finisse in buone mani dopo
i tanti disastri anche mediatici delle stagioni precedenti. Stavano facendo un
buon lavoro costruendo su giovani in gamba come Danilo Gallinari, Wilson
Chandler, Timofey Mozgov, Raymond Felton, Landry Fields e poi dal mercato dei
free-agent del 2010, nell’impossibilità di arrivare a LeBron James, Dwyane Wade
e Chris Bosh, avevano preso Amar’e Stoudemire che con D’Antoni aveva giocato
benissimo a Phoenix e il cui unico problema era doverlo pagare come una star
destinata a giocare cinque anni da MVP ma con le ginocchia di chi al massimo
avrebbe dato due o tre anni ad alto livello come poi è stato. Solo che Carmelo
Anthony prima di diventare free-agent era stato messo sul mercato dai Denver Nuggets
e nel timore che finisse ai Nets, il proprietario James Dolan aveva preteso che
i Knicks lo prendessero subito smantellando la squadra. E Walsh, prima di
andarsene, dovette eseguire. D’Antoni si trovò per le mani una squadra che non
era la sua. Ma provò a farla funzionare lo stesso.
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