venerdì 30 dicembre 2016

NBA WEEK 9/All in One

Era il 2004. I Lakers avevano appena perso in maniera catastrofica la Finale contro i Pistons. Un 4-1 senza storia, inatteso e parente stretto di un cappotto. L'unica vittoria in gara 2 era stata acciuffata in extremis dopo un tempo supplementare con una tripla concessa a Kobe Bryant. Era il Superteam con Gary Payton e Karl Malone al passo d'addio.
I Lakers dovevano ripartire cominciando con ripristinare ordine in spogliatoio. Quindi via Phil Jackson, presenza ingombrante, e dualismo Bryant-Shaq da risolvere una volta per tutte. E il proprietario Jerry Buss scelse Kobe.
Aveva un debole per Bryant, per i giocatori creativi e perimetrali fin da quando scelse Magic Johnson come uomo franchigia piuttosto che Abdul-Jabbar. Ma a quei tempi non aveva dovuto scegliere. In questi tempi il dualismo tra i due era velenoso. In più i Lakers realizzarono di poter scambiare Shaq ricavando qualcosa di interessante. Infatti lo cedettero a Miami ottenendo tra gli altri Lamar Odom che poi sarebbe stato una presenza decisiva nei titoli del 200o e 2010.
La scelta Bryant era stata fatta ma la scelta dell'allenatore no. Jerry Buss aveva un debole per il coach dello Showtime degli anni '80. Chiamò Pat Riley.
In quel momento Riley era il presidente degli Heat e il suo allenatore era Stan Van Gundy. Non aveva la smania di tornare ad allenare ma non lo escludeva (sarebbe tornato per vincere il titolo del 2006). I Lakers erano la sua squadra originale quella cui aveva dedicato la sua carriera di giocatore e poi gli anni più entusiasmanti da allenatore. Era attratto. Andò a cena con Jerry Buss e Mitck Kupchak, il general manager che aveva allenato sempre ai Lakers. Gli spiegarono dei problemi tra Kobe e Shaq, di quanto la ferita non fosse curabile.
Motivatore supremo, carismatico, Riley con estrema fiducia in se stesso disse a Buss di permettergli di parlare con i due giocatori assieme. Era convinto che avrebbe risolto il problema. Lui avrebbe allenato i Lakers ma con Kobe e Shaq assieme. Buss disse che non si rendeva conto di quanto il rapporto fosse irrecuperabile. Disse che la scelta era stata fatta. Sarebbe rimasto Kobe. Sarebbe partito O'Neal.
Riley in un attimo colse l'occasione. In un istante rinunciò alla panchina dei Lakers. Da presidente di Miami quello fu il momento in cui decise di prendere Shaq e avviò la trattativa.
Il resto è storia. Maglia numero 32 ritirata, il titolo vinto nel 2006 e gli Heat diventati davvero una franchigia di riferimento. Nacque tutto quella sera.

IL ROOKIE DELL'ANNO INEVITABILE
Joel Embiid vincerà il trofeo di rookie dell'anno. La corsa non è neppure cominciata. Il suo dominio è schiacciante. Ha un vantaggio netto sulla concorrenza, quello di essere stato scelto due anni fa. Pur non avendo giocato, ha due anni di più, ha potuto maturare fisicamente e tecnicamente, è stato esposto per due anni ai ritmi di lavoro, al contesto di un club NBA. Potrebbe essere discutibile la regola ma ne hanno beneficiato altri prima di lui. David Robinson ad esempio debuttò a San Antonio due anni dopo la scelta e a differenza di Embiid non era nemmeno infortunato. O Blake Griffin.
Tutto questo non cambia che Embiid sia un giocatore fenomenale, quasi unico, destinato a cose enormi. E che la sua presenza abbia salvato quest'annata di matricole. Non ci fosse stato lui il trofeo sarebbe andato ad un giocatore promettente ma nulla di più. La guardia Jamal Murray di Denver di recente ha messo assieme tre gare da almeno 20 punti consecutive ma non tocca i 10 di media. Domantas Sabonis di Oklahoma City è l'unico rookie che parta in quintetto ma più per assenza di alternative che per rendimento, 6.6 punti e 3.4 rimbalzi per gara in 20.9 minuti. Embiid è un'altra cosa. I Sixers sono 4-3 quando segna almeno 20 punti il che già oggi significa che se non avesse restrizioni di minutaggio a scopo precauzionale porterebbe la sua squadra, debolissima nel back-court e imperfetta nella chimica su livelli di rendimento interessanti. Sta segnando oltre 18 punti con 8 rimbalzi giocando 24 minuti. Il ragazzo vale ampiamente il 20+10. Sta tirando con il 41% da tre, straordinario per un centro sia pure atletico e modernissimo.
La presenza di Embiid ha però smascherato i problemi dei Sixers con gli altri due lunghi. Il primo tentativo di far giocare Jahlil Okafor da 4 è stato una tragedia. Nerlens Noel conta i giorni che lo separano da una nuova squadra ma nel frattempo il loro valore di mercato è sceso (Noel ha anche avuto enormi problemi fisici da quando è stato scelto nel 2013) e questo non accelera le decisioni. Giustamente Bryan Colangelo ha bisogno di essere paziente e premere il grilletto al momento giusto. Ma questo affollamento di centri indebolisce i Sixers ogni giorno se non trovano il modo di farne giocare due assieme.


TOP 10: IL CLOSER KYRIE IRVING
1 RUSSELL WESTBROOK - 15 triple doppia in una stagione unica che comincia a dover essere considerata tra le migliori di sempre.
2 JAMES HARDEN - Almeno 10 assist in 10 partite su 11.
3 KEVIN DURANT- È la vita che si è scelto. Gioca una strepitosa partita con energia estrema a Cleveland ma i Warriors perdono e lui si prende le colpe.
4 LEBRON JAMES - Quando lui riposa i Cavs diventano una squadra da Lotteria. Nonostante Kyrie Irving e Kevin Love. 5 ANTHONY DAVIS - I Pelicans hanno tratto qualche beneficio utilizzandolo da centro accanto a quattro esterni. Smallball puro. Solomon Hill e Dante Cunningham in quintetto come ali. Quattro vittorie nelle ultime cinque.
6 KAWHI LEONARD - Ha saltato una partita contro i Suns. Popovich l'ha portato ad esempio come giocatore che si è evoluto in modo perfetto. Importante.
7 DEMAR DEROZAN - È diventato il leader di tutti i tempi di Toronto nei punti segnati. Tra i giocatori in attività sono capocannonieri All-Time di squadra LeBron James, Dirk Nowitzki e Mike Conley.
8 KYRIE IRVING- Ha risolto la partita più attesa della regular season contro i Warriors prima arrivando al ferro contro Kevin Durant e poi con il fade-away della vittoria. Va imponendosi come uno dei migliori closer della Lega forse il migliore. Impressionante che non abbia neanche provato a dare la palla a LeBron. Fiducia nei propri mezzi suprema.
9 JIMMY BUTLER- Contro Brooklyn è diventato il quarto giocatore in 10 anni a segnare 40 punto incluso il buzzer beater per vincere la partita.
10 GIANNIS ANTETOKOUNMPO - Striscia di nove gare oltre i 20 punti. Giusta domanda? Meglio Giannis+Parker o Wiggins+Towns?

THE NEXT
STEPHEN CURRY
- Primi problemi in Paradiso. Curry poco coinvolto a Cleveland. Kerr a sua volta lamenta le sue scelte tattiche. Golden State Warriors 2.0.
DEMARCUS COUSINS - I Kings hanno vinto quattro gare di seguito tutte entro i cinque punti di margine. Nuova esplosione di Cousins a Portland quando lo speaker ha annunciato un fallo tecnico che non era stato sanzionato. Non l'ha presa bene.
DAMIAN LILLARD - Pesantemente criticato da George Karl (il cui libro sta facendo infuriare mezza NBA) per le sue attività extrabasket e l'eccesso di attenzioni. Coach Terry Stotts è intervenuto in suo supporto e così ha dovuto di fatto chiudere la propria amicizia con Karl di cui è stato assistente per 11 stagioni.


CHI ERA CAPTAIN LATE?
l ritiro della maglia numero 21 di Tim Duncan da parte dei San Antonio Spurs era un gesto scontato. Nessun giocatore ha vinto di più o è stato più importante nella storia della franchigia. Per quanto si tratta di un'organizzazione modello quasi nulla di quello che è stato realizzato sarebbe stato possibile senza il colpo di fortuna della Lotteria del 1997. Il 21 di Duncan è l'ottavo numero ritirato dagli Spurs. Prima di lui sono stati onorati dello stesso gesto David Robinson, Sean Elliott, Avery Johnson, Bruce Bowen, George Gervin, Johnny Moore e James Silas.
Alcune di queste scelte sono scontate: George Gervin, The Iceman, è stato la prima star autentica della franchigia. Vi arrivò via Virginia Squires quando erano nella ABA e con loro fece il salto nella NBA dove continuò a fare canestro, assecondato dallo stile di gioco, il run and gun, degli Spurs di quei tempi. Gervin era la stella della squadra che comprendeva Johnny Moore come point-man, un genio nel passaggio, grande istinto, forse poca disciplina, Mike Mitchell, Gene Banks e Artis Gilmore ed era costantemente nella prima parte degli anni '80 una delle migliori della Western Conference ma alle spalle degli inarrivabili Lakers di quegli anni.
Non è il caso di parlare di David Robinson: ha vinto solo quando ha potuto scalare nelle gererchie di una posizione, dietro Duncan, ma è stato chiaramente il secondo miglior giocatore nella storia del club. Di fatto l'ha anche salvato da un sicuro trasferimento. Quando venne scelto, da Navy, gli Spurs erano sull'orlo del fallimento, alla ricerca di situazioni logistiche migliori. Dovettero aspettarlo due anni, necessari perché fosse rilasciato, dalla marina militare americana al compimento dei anni di servizo, ma ovviamente ne valeva la pena.
Elliott, Johnson e Bowen sono ritiri di maglia sentimentali, giocatori che hanno dato tantissimo, non star, ma vincenti e amati. Elliott ha giocato dopo un trapianto di rene, Johnson era un point-man di modesta caratura m grande cuore e leadership che segnò comunque il canestro della staffa in gara 5 della Finale NBA del 1999, il primo titolo degli Spurs, Bowen era il cuore della difesa in una parte della dinastia firmata da Gregg Popovich. Per nessuno dei tre il ritiro della maglia era scontato, il più meritevole sicuramente era Elliott, ma vorrei che meditassero anche su Robert Horry (titoli del 2005 e 2007). Di sicuro nella squadra di ora ci sono diverse maglie ritirate certe, quella di Manu Ginobili, quella di Tony Parker, ovviamente, di Kawhi Leonard.
Così resta da rispondere all'ultima domanda: ma chi era James Silas? Se Gervin è stato la prima star planetaria degli Spurs, Silas è stata la prima star e basta. Era un point-man, lo chimavano Captain Late perché aveva l'abitudine di esplodere nei minuti finali delle partite. Silas entrò nella ABA grazie ai Dallas Chapparals, ma questi vennero trasferiti a San Antonio e lui li seguì. Ha giocato a San Antonio per otto stagioni di cui le prime cinque nella ABA, con due All-Star Game e un'inclusione nel primo quintetto della Lega. Indossava il 13 ed ebbe 16.1 punti di media in carriera.



FROM "GOLDEN TIMES": JERRY WEST
Joe Lacob voleva un consigliere. Una persona che suggerisse, un appoggio esperto per lui e per i suoi manager o allenatori. Una voce sicura. Joe Lacob voleva Jerry West, l'uomo simbolo - letteralmente - della NBA. Un uomo che ha sempre avuto un appuntamento fisso con la Finale NBA prima da giocatore, quasi sempre dalla parte sbagliata (nel 1969 fu MVP di una finale persa: non è mai più successo), poi da infaticabile, geniale general manager. West aveva scambiato Norm Nixon per Byron Scott, un rookie, aveva firmato Bob McAdoo quando nessuno l'avrebbe voluto toccare, aveva scelto Pat Riley come allenatore preferendolo a sé stesso!, era l'uomo che aveva sfasciato i Lakers per poter firmare da free-agent Shaquille O'Neal e poi girare Vlade Divac a Charlotte per un 18enne di nome Kobe Bryant. Ma Jerry West, il cui ultimo lavoro era stato a Memphis, era sempre stato soprattutto una bandiera dei Los Angeles Lakers.
Ma Lacob era convinto. Andò a trovarlo nella sua casa di Bel Air molte volte. West era perplesso. Non voleva mettere in difficoltà o nell'ombra i dirigenti operativi. Non voleva essere di troppo e non voleva essere un parafulmine. Si chiedeva come la bandiera dei Lakers sarebbe stato accolto dai focosi tifosi dei Warriors. Lacob lo convinse. Avrebbe continuato a vivere a Los Angeles, West, avrebbe dato consigli, non preso decisioni ma tutti sapevano che i suoi consigli sono sempre forti. Decisi. Quasi minacciosi. "È importante capire che West anche quando urla e sbraita lo fa per vincere. Se condividi lo stesso desiderio avrai un gran bel rapporto con lui", dice Myers. 


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