I Golden State Warriors
avevano eliminato i Denver Nuggets 4-2 nei playoffs del 2013. Andre Iguodala
aveva toccato con mano la consistenza della squadra. L’1 luglio, primo giorno
disponibile per contattare i free-agent, Rob Pelinka – l’amico di Kobe Bryant
diventato potentissimo agente – chiamò Bob Myers. Erano amici, avevano lavorato
assieme. Iguodala voleva giocare nei Warriors.
Fu una notizia a suo modo
choccante: fino a quel momento, la reputazione di Golden State non era mai
stata abbastanza significativa da stimolare i free-agent. Vivere sulla Baia?
Ok. Ma i Warriors erano considerati un’organizzazione di basso livello, da
evitare a tutti i costi. Solo che le cose stavano cambiando velocemente.
Myers era scettico non su
Iguodala ma sulla possibilità che si potesse trovare un accordo. Andre era
giocatore da 12-13 milioni almeno all’anno e il salary cap dei Warriors non
consentiva voli di fantasia. Però accettò l’invito di Pelinka e volò giù verso
Los Angeles per parlare con lui e Iguodala. “Prima che potessimo dirgli
qualunque cosa, disse che ammirava la nostra squadra, come giocavamo, il
potenziale e che avrebbe voluto giocare con noi. Non mi era mai capitato nulla
di simile. Tutto quel che mi ero preparato per convincerlo era diventato inutile.
Lo considero un momento chiave della nostra esistenza, quello in cui la
percezione che volevamo trasmettere diventò realtà”, racconta Myers.
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