La finale olimpica di Monaco 1972 è stata probabilmente la partita
più famosa di basket più famosa, discussa, analizzata della storia. Certamente
non la più bella, neppure a livello olimpico, ma la più popolare. A Monaco,
pochi giorni dopo il massacro degli atleti israeliani nella palazzina di
Connollystrasse, gli USA persero la prima partita olimpica della loro storia
dopo sette medaglie d’oro e dopo aver sconfitto in semifinale proprio l’Italia
di Giancarlo Primo in modo inequivocabile. Ma la partita delle partite, in
piena guerra fredda, era quella contro l’Unione Sovietica che sconfisse Cuba in
semifinale. In sintesi la storia di quella partita è questa: l’URSS dominò in
lungo e in largo ma senza uccidere una gara giocata a ritmi molto bassi,
difensiva, con pochi canestri; gli USA si sbloccarono negli ultimi cinque
minuti di partita e completarono la rimonta quando la guardia Doug Collins –
che poi ebbe un eccellente carriera nella NBA sia da giocatore che da
allenatore – intercettò un passaggio, andò sparato a canestro e con tre secondi
da giocare subì un evidente fallo, punito con due tiri liberi. Claudicante,
Collins andò in lunetta con la benedizione del coach Hank Iba, un duro del
Missouri che aveva avuto una carriera leggendaria a Oklahoma State ma contro il
parere degli assistenti che avevano suggerito un’opportuna sostituzione. Il
ventenne Collins andò in lunetta e senza battere ciglio centrò entrambi i
liberi. E il resto è tutto quello che conta…
I sovietici effettuarono la rimessa ma quando la palla
raggiunse quasi la metà campo gli arbitri fermarono il gioco per placare la
violenta protesta dell’allenatore sovietico Kondrashin. Il coach sosteneva di
aver chiesto time-out e quindi l’azione andava fermata per riprendere dopo il
minuto di sospensione. Ma la richiesta era stata irregolare e forse mai
effettuata. Tuttavia i sovietici avevano rimesso e bruciato il tempo. Giusto o
sbagliato, gli arbitri (Artenik Arabadjan, un bulgaro, e il brasiliano Renato Righetto)
decisero per riprendere il gioco dai tiri liberi di Collins. concedendo di fatto una nuova opportunità all'URSS. Yvan Edeshko
eseguì la rimessa a tutto campo ma il passaggio lungo venne toccato, risultando
incompleto, la sirena suonò, la partita era finita. Gli americani esultarono in
mezzo al campo convinti di poter celebrare lo scampato pericolo. Ma al tavolo
le discussioni ripresero. Parlando di un errore nel resettare il cronometro
(ad un certo punto le immagini lo mostrano mentre indica 50 secondi), si decise
con l’intervento del segretario generale della FIBA (il Patrick Baumann di
oggi), che ovviamente non avrebbe dovuto avere alcun potere in quel contesto,
di far giocare l’ultimo pallone ai sovietici una terza volta con tre secondi da
giocare. Ci furono altre stranezze: l’arbitro Righetto cacciò via dal pressing Tom
McMillen che invece aveva il diritto di ostacolare la rimessa (probabilmente l’arbitro
intendeva solo indicare a McMillen la distanza a cui doveva collocarsi ma il
centro andò letteralmente via); il passaggio a tutto campo di Edeshko fu viziato
da un’infrazione di piede non rilevata; Belov ricevendo palla commise forse
infrazione di passi e forse anche un fallo in attacco. In ogni caso segnò e la
partita finì così, 51-50 per l’URSS. Gli americani sporsero reclamo ma la
commissione era formata da cinque giudici: i tre appartenenti a nazioni del
blocco dell’est votarono contro; i due occidentali a favore. Così il verdetto del
campo fu confermato. Gli americani non hanno mai ritirato le loro medaglie. Secondo
il Grande Aldo Giordani, che era a Monaco, gli arbitri sbagliarono fermando il
gioco sulla prima rimessa; in totale confusione sbagliarono a non rilevare
alcuna infrazione sulla rimessa decisiva ma fu William Jones (visibile dietro
il tavolo in una posizione non corretta con tre dita alzate a indicare i
secondi da rigiocare) a decidere a decidere per la terza
ripetizione. E sempre secondo Giordani intendeva ingraziarsi politicamente in
eterno i sovietici immaginando che il risultato non sarebbe cambiato.
In ogni caso la storia di quella partita è stata raccontata
mille volte, in tutto il mondo, può essere vista e rivista su youtube come ho
fatto io, ma sempre dal punto di vista americano. Qualche volta sono stati
intervistati Kondrashin o altri giocatori della Nazionale sovietica, arroccati
sulle loro posizioni ma senza fornire troppe spiegazioni. Ma in queste
settimane in Russia è uscito “Going Vertical”, film prodotto localmente e pare
di grande successo. Non è un documentario ma un film che ricostruisce il
percorso vincente di quella Nazionale sovietica. E’ interessante perché per una
volta si possono osservare le cose in modo diverso. La pellicola è certamente
romanzata: gli americani sembrano fenomeni atletici quando invece erano una
squadra di talento normale, senza stelle, e ovviamente molto più giovane e
inesperta di quella sovietica; qualche storia umana è impreziosita come ad
esempio i problemi al cuore di Alexander Belov (scoperti non prima dei Giochi
ma dopo la sua morte nel 1978). Ma la vita dei giocatori quando viaggiavano all’estero
pare sia ben descritta; così come l’atteggiamento dei dirigenti sovietici, non
solo sportivi, che in piena guerra fredda non volevano assistere ad una
sconfitta sovietica contro gli americani in uno sport così popolare sotto gli
occhi del mondo. Kondrashin dovette combattere anche contro questi ostacoli o l’idea
di ritirare la squadra dopo la strage degli israeliani come scusa per evitare
il confronto con gli americani. Ma è proprio lui a uscire come eroe positivo
della storia: voleva vincere per avere la possibilità di portare la figlia
malata ad operarsi all’estero, non avendo fiducia nella medicina sovietica dell’epoca.
Il film finisce con i giocatori che gli regalano i loro premi, ottenuti
sottobanco, per permettergli di realizzare il suo obiettivo.
La partita, la storia, resta affascinante anche a quasi
cinquanta anni di distanza. I giocatori americani ancora oggi lamentano la
scelta di Iba come allenatore: aveva vinto i Giochi nel 1964 e nel 1968 ma era
superato nel 1972 e troppo ostinatamente arroccato sui suoi principi quando
ormai in America avevano deviato verso un basket veloce, atletico, offensivo
che la lenta, grossa, compassata squadra sovietica non avrebbe mai retto. Iba
scelse una squadra adatta al suo gioco ma modesta anche se cinque giocatori
furono scelti al primo giro dei draft del 1973 (Collins all’1, Jim Brewer al 2,
Mike Bantom all’8, Dwight Jones al 9 e Kevin Joyce all’11 nessuno di loro però ha avuto una carriera NBA di livello). Non c’era Bill
Walton (primo uomo scelto nel 1974), il miglior collegiale dell’epoca; non c’era
Jamaal Wilkes.
Certamente il finale fu irregolare e gli americani nel non
ritirare le medaglie d’argento presero una decisione forte sulla quale si può
discutere (non è un disonore l’argento olimpico ma non è questo il punto,
sostengono). Ma la vittoria sovietica da un punto di vista strettamente
cestistico non fu immeritata, anche se a 12 minuti dalla fine uno scambio di pugni
determinò l’espulsione di Mishako Korkia, un giocatore minore, e di Dwight
Jones che cadde nel tranello ed era il primo realizzatore della squadra
americana. Tuttavia dopo l’episodio gli americani rimontarono.
Però è comprensibile che i sovietici celebrino quella
vittoria storica, più di quanto abbiano mai fatto per quella del 1988 a Seul in
cui il cuore della squadra era baltico. Nel 1980 alle Olimpiadi invernali di
Lake Placid i collegiali americani sconfissero il terrificante squadrone
sovietico di hockey. Fu la partita del “Do You Believe in Miracles?”. Monaco
1972 fu lo stesso tipo di partita – a parti invertite – per i sovietici.
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