Questa è davvero dura da assorbire perché Henry Williams
aveva solo 47 anni, perché tutti noi siamo stati testimoni della sua intera
carriera professionistica, pensando che nella NBA erano stati pazzi a non
accettarne i limiti di taglia fisica per prendere tutto quello che sapeva fare
con il suo tiro mancino, l’esplosività, la straordinaria velocità di piedi. Ricordo la
prima volta che lo vidi fuori dal campo. C’era un ristorate vicino al palasport
di Verona. Non ricordo quale partita fosse. Lui entrò, vestito bene, elegante,
e dai tavoli spontaneamente si alzò un applauso che lo mise in imbarazzo. Fece
un piccolo inchino, alzò il braccio. Era contento e a disagio al tempo stesso.
L’ultima volta fu in America: aveva smesso di giocare presto dopo gli anni di
Verona, Treviso, Roma e Napoli. Lavorava come commentatore televisivo per
Charlotte. In fondo era anche quello un modo per raggiungere la NBA. Parlava
ancora in modo accettabile l’italiano. Da tempo era un pastore battista – la
religione sempre al primo posto della sua vita – ma faceva tante cose, aveva
sostenuto altre attività imprenditoriali, anche con la moglie. Fare l’analista
televisivo gli permetteva di rimanere a contatto con il basket in un posto in
cui aveva giocato solo a livello universitario ma dov’era una leggenda. Era
allegro, felice, una persona di successo, in pace con sé stesso e con la vita.
Era prima del 2009 quando gli dissero che i suoi reni non funzionavano più e
non sapevano spiegarsi perché. Da quel momento otto ore al giorno di dialisi:
comprò la macchina per evitare di dover andare in ospedale tutti i giorni e
poterla usare a casa. E provava a vivere come se fosse ancora Hi-Fly Williams,
il più grande realizzatore nella storia di North Carolina-Charlotte. Predicava
tutte le settimane ai fedeli, non aveva perso fede, fiducia, entusiasmo. La
vita l’aveva colpito duramente ma non l’aveva spento. Almeno fino a ieri.
Quando smise di giocare Williams tornò a Charlotte dove
aveva conosciuto la moglie Katrina (la prima figlia è nata in Italia) e dove
era una leggenda grazie agli anni del college. Lui però era di Indianapolis e
l’educazione religiosa gli arrivava dalla mamma. Quando i San Antonio Spurs lo
tagliarono – erano gli anni precedenti l’era Popovich ovviamente – andò a
giocare nella CBA, la seconda lega di allora, dove non si guadagnava quasi
nulla e lui aveva giocato i Goodwill Games del 1990 con la Nazionale americana che aveva Alonzo Mourning e Kenny Anderson. Poi lo chiamarono da Verona. Doveva rimanere un mese per 20.000 dollari e
giocare in A2 al posto di Corey Crowder, infortunato, il padre del Jae Crowder
di Utah. Restò tutto l’anno e Verona venne promossa. La Glaxo aveva vinto la Coppa
Italia del 1991 quando era in A2, ma Alberto Bucci andò via e l’anno seguente,
pur raggiungendo la semifinale di Coppa Europa contro il Real Madrid (perse
gara 2 in Spagna con due liberi sbagliati da Tim Kempton), finì per retrocedere
a causa della spietata formula dei playout. Aveva Russ Schoene oltre a Kempton,
aveva Moretti e Gallinari padre. L’anno dopo fu quello in cui arrivò Hi-Fly per
la risalita.
Fece altri due anni a Verona, poi andò a Treviso dove
guadagnava tantissimo - non era più la Benetton di Toni Kukoc e Vinny Del Negro ma era ancora un club al top in Europa, che spendeva molto -, fu allenato da Mike D’Antoni e da Zeljko Obradovic, vinse
uno scudetto e fece le Final Four di Barcellona nel 1998 quando la Virtus vinse
la coppa e Treviso fu battuta dall’AEK Atene. Nel 1999 andò a Roma per giocare
assieme a Mike Iuzzolino, back-court piccolo ma di grande talento, però non
funzionò abbastanza. Infine Napoli.
La sua malattia era nota. Ne parlava liberamente come
liberamente raccontava di quando John Lucas lo chiamò a San Antonio mentre
stava per andare a Verona. Ma non era un contratto garantito e rifiutò. Poi Pat
Riley lo voleva a New York. Ma guadagnava di più in Italia e si divertiva di più. Rest In Peace, un abbraccio alla moglie e i tre figli.
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