La nona finale della carriera di LeBron James (eguagliato
Magic Johnson che ne vinse cinque) è anche l’ottava consecutiva. Ma mai era
arrivata partendo dal numero 4 del tabellone e con una squadra oggettivamente
così debole, dopo una stagione che ne ha racchiuse almeno tre in pochi mesi.
Solo nel 2007 quando non aveva ancora 23 anni l’approdo in finale poteva essere
considerato stupefacente come lo è adesso. I Cavaliers hanno cominciato questa
stagione perdendo Kyrie Irving, la seconda star della squadra, legittimamente
uno dei primi 10-12 giocatori di questa Lega; l’esperimento Isaiah Thomas è fallito;
affiancare a LeBron, in una specie di operazione nostalgia+amicizia, Dwyane
Wade è stato un altro fallimento. La rivoluzione di febbraio ha fatto
precipitare la squadra in classifica, afflitta da una difesa terribile e un’attitudine
spesso peggiore. La perla della rivoluzione, Rodney Hood, è fuori dalla
rotazione. Per arrivare in finale, Cleveland ha dovuto vincere due volte una
gara 7. Probabilmente Indiana meritava di avanzare più dei Cavaliers nel primo
turno; l’ostacolo più arduo, Toronto, si è rivelato un clamoroso bluff; Boston
ha avuto una stagione stupefacente ma l’accesso dei Celtics in finale era il
solo evento che avrebbe avuto addirittura meno senso, date le circostanze.
Boston, se avesse vinto gara 7, sarebbe entrata in finale con un record di 1-7
in trasferta nei playoff, due vittorie in gara 7 come Cleveland ma tutte e due
ottenute proteggendo il fattore campo. I Celtics meritavano la finale, per come
e dove sono arrivati senza i loro due migliori giocatori (e Dan Theis), ma
appunto avrebbe avuto meno senso di vedere qui LeBron, a tratti da solo.
Ci sono state partite in questi playoff, inclusa la finale
di conference (era dal 1979 che non c’era bisogno di due gare 7 per designare
le finaliste), in cui soprattutto all’inizio sembrava quasi che LeBron credesse
sinceramente di poter vincere la partita da solo, nel senso letterale del
termine, ovvero facendo tutto e magari segnando tutti i punti della sua
squadra. Per arrivare ad una finale in cui sarà meno favorito di quanto lo sia
stato in tutte le ultime sette e forse persino più di quanto lo fosse nel 2007
contro gli Spurs all’apice del loro ciclo, ha dovuto segnare sei volte più di
40 punti, realizzare tre triple doppie e infine giocare a Boston, con Kevin Love
assente, 48 minuti filati, a quasi 34 anni di età. I Cavaliers giocheranno la
loro quarta finale consecutiva, come hanno fatto i Miami Heat dei Big Three, ma
senza Wade e Bosh. I Big Three
di Cleveland dovevano essere LeBron, Kyrie Irving e Kevin Love. Irving
non c’è più e Love non è mai stato un “numero tre” paragonabile al Chris Bosh
di Miami se non a tratti, occasionalmente. L’onnipotenza di LeBron però è
superiore adesso. Gioca con la consapevolezza, la padronanza delle situazioni
che in precedenza ha avuto solo Michael Jordan nella seconda tripletta dei
Bulls. Nella post-season ha avuto 34.0 punti, 9.2 rimbalzi e 8.8 assist di
media in 41.3 minuti di impiego. Nelle partite vinte non ha mai giocato meno di
38 minuti ma sono state due gare vinte facilmente.
C’è stato un momento significativo in gara 7: quando Terry
Rozier – tornato sul Pianeta Terra dopo essersi inventato star all’uscita di
scena di Irving – dopo aver osato prendersi un tiro da tre in faccia a James
(sbagliandolo), in contropiede ha tentato una schiacciata irreale in testa a LeBron
che fisicamente è il doppio di lui. Sarebbe stata la versione 2018 del “The Dunk”
di John Starks su Michael Jordan nel 1993 ma Starks fisicamente era simile a
MJ. LeBron ha respinto quell’irriverente tentativo con una stoppata tonante.
Dopodiché ha osservato i compagni eseguire e completare il contropiede
rimanendo fermo sotto il proprio canestro. Una parte di lui recitava. Una parte
di lui voleva enfatizzare il momento, il gesto, forse anche irridere l’avversario
umiliato (Brad Stevens l’ha poi fatto sedere, giustamente, e quando è rientrato
Rozier ha continuato a lanciare palloni contro il ferro, un finale di stagione
immeritato per un giocatore coraggioso e davvero sorprendente). Ma quello che
LeBron stava facendo era più profondo. LeBron stava recuperando.
Di recente è uscita una statistica che anni fa non sarebbe
stata possibile: misura i metri percorsi da ogni giocatore durante la partita e
persino la velocità media, espressa in chilometri orari o metri al secondo.
LeBron è risultato il giocatore più “lento” della Lega. Nel senso che la
velocità media a cui gioca è la più bassa. Ovviamente non è il giocatore più
lento della NBA, non è nemmeno vicino ad esserlo, ma ha imparato a gestire le
energie. Se i compagni vanno in contropiede e lui ha eseguito il primo
passaggio non sprinta inutilmente. Si ferma. Se non può correre in transizione –
e allora è davvero veloce! – e si fa consegnare la palla, cammina velocemente,
non corre. Se deve prendersi un possesso di riposo sa quando farlo sia in
attacco che in difesa. Così risparmia energie e allunga il tempo di presenza in
campo. Fino ad arrivare ai 48 minuti di gara 7, nella centesima partita della sua stagione. Che sono una mostruosità.
E’ possibile che nel giro di pochi giorni si parli della sua
sesta finale persa in carriera. E’ probabile, più che possibile. La realtà è che è ha vinto le ultime sei volte che ha giocato una gara 7. La realtà è che ha vinto tre volte una serie partendo da 0-2. La realtà è
che mai come in questo momento considerarlo il più vicino possibile a Michael
Jordan o meritevole di essere paragonato a lui appare legittimo.
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