lunedì 17 ottobre 2016

Golden Times: la storia del più bizzarro show cestistico moderno



I Golden State Warriors sono “The Most Entertaining Show on Earth”, il più grande, intrigante spettacolo cestistico sulla faccia della terra. Hanno conquistato la NBA con record, velocità, sicurezza e soprattutto con un gioco affascinante, costruito attorno ad uno dei giocatori più incredibili che si siano mai visti al mondo. E altrettanto velocemente hanno preso tutto questo, record, spettacolo, sicurezza e l’hanno gettato dalla finestra. E’ come se ogni squadra avesse davvero un DNA al quale è impossibile sfuggire. Può accadere ma non definitivamente. Non sarebbero i Warriors se dopo un titolo NBA vinto dopo 40 anni e il primato di ogni epoca di vittorie non avessero perso in casa, in gara 7, il secondo titolo, ritenuto per mesi scontato. Una bizzarra anomalia che anche nel momento del successo percorre la spina dorsale di una franchigia che è sempre stata anomala e bizzarra.

Come del resto, Stephen Curry. I giocatori dominanti nella NBA sono sempre stati caratterizzati da una qualità che li ha resi speciali, fenomenali attorno alla quale sono riusciti a fabbricare uno stile spesso unico, di sicuro completo e di altissimo livello. Bill Russell era un difensore, la stoppata elevata ad arte. Wilt Chamberlain aveva qualità atletiche abnormi che utilizzava per segnare valanghe di punti. Kareem Abdul-Jabbar era il re dal gancio cielo ed era anche 2.18. Magic Johnson era un passatore di 2.05. Larry Bird era una unica combinazione di stazza, tiro e passaggio. Michael Jordan era un atleta irreale. LeBron James è il giocatore più potente fisicamente che ci sia mai stato. Quasi onnipotente. Ma Stephen Curry? 185 centimetri e 80 chili di peso. Numeri da Allen Iverson che però saltava, era veloce, forte, aveva fatto il quarterback.
Curry ha costruito il suo dominio sul proprio tiro. Il resto è venuto dopo. Non c’era mai stato uno così.
E non c’era mai stata una storia tempestata di vicissitudini come quella dei Golden State Warriors. Nati a Philadelphia, quando la NBA non esisteva ancora. Trasferitisi a San Francisco, per giocare al Cow Palace, posto riservato al mercato del bestiame, con un proprietario di nome Frank Mieuli, pantaloni a quadri, barba lunga, look raggelante persino per quei tempi. Fu lui a portarli a Oakland, la sorella povera, brutta e pericolosa di San Francisco, al di là del ponte.
La prima star, Rick Barry, era così infastidito da Mieuli che decise di andare a giocare nella ABA nel bel mezzo della carriera. Eppure con lui i Warriors avrebbero successivamente vinto un titolo che è sembrato un’aberrazione. Pensate a cosa è successo dopo: i Warriors cedettero Kevin McHale e Robert Parish ai Boston Celtics per Joe Barry Carroll. Joe Barry Carroll a 27 anni li lasciò a terra un anno per giocare a Milano. La nuova star designata, Chris Mullin, venne internato in una clinica per il recupero di alcoolisti. La spettacolare formula del “Run TMC”, Tim Hardaway, Mitch Richmond, Chris Mullin venne spezzata per irrobustirsi con Billy Owens, un’ala che giocava sempre con un cilindro in meno.
L’arrivo di Chris Webber nel 1993 poteva essere quello del Messia. Dopo un anno litigò con tutti ma soprattutto con il Coach Don Nelson e fu ceduto a Washington. Per riprendersi sarebbero serviti anni. Il proprietario Chris Cohan era il Re delle battaglie legali ma un giorno un quotidiano locale pubblicò una storia investigativa che lo fece a pezzi anche più dei drammatici risultati della squadra.
Latrell Sprewell cercò di strangolare il coach PJ Carlesimo e andò a giocare i suoi anni vincenti a New York e Minnesota. Poi ci fu la squadra del “We Believe” e durò circa un anno. L’ultimo proprietario, quello attuale, Joe Lacob licenziò l’allenatore che aveva riportato i Warriors in alto, Mark Jackson, perché non andava d’accordo con nessuno e soprattutto con i suoi assistenti, uno dei quali fu addirittura licenziato perché sorpreso a registrare segretamente i meeting dello staff. Se qualcosa doveva andare storto ai Warriors andava storto. E’ sempre stato così. Lo è anche adesso.
Poi Stephen Curry è diventato Stephen Curry e molto più di quello che lui stesso avrebbe potuto immaginare. Creando una favola sulla Baia. Ma le favole non sono tutte belle dall’inizio alla fine e se fosse tutto facile i Warriors non sarebbero i Warriors. Nel bene e nel male. Ogni storia di questi Warriors meriterebbe un libro. Qui ho provato a raccontarvele, partendo da Rick Barry e Frank Mieuli e attraverso tutti i passi che hanno magicamente condotto Steph Curry dalla Virginia o da Charlotte alla California del Nord nel momento giusto, con Klay Thompson e le sue origini bahamensi, Steve Kerr e la sua storia strappalacrime tra Beirut, Tucson, il destro di Michael Jordan e il sistema di Gregg Popovich. Una storia che è la somma di tante storie incredibili. E la più incredibile è proprio l’ultima, quella del titolo perso nell’anno delle 73 vittorie stagionali. La squadra più forte di sempre, risultati alla mano, beffata nel suo anno migliore. E in modo rocambolesco, perdendo gara 7 in casa – non succedeva in Finale dal 1978 -, perdendo dopo aver condotto 3-1 e in Finale non succedeva… non era mai successo. 32 volte una squadra in Finale si è trovata avanti 3-1 e tutte e 32 aveva vinto. Poi sono arrivati loro, quelli del destino bizzarro, della legge di Murphy. E hanno perso. Diventando umani, se vogliamo, ma regalando subito dopo – ennesimo colpo di scena inatteso – la perla di aver convinto il più corteggiato free-agent del nuovo secolo, LeBron James a parte, ad unirsi a loro. Provate a seguirmi.

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