sabato 28 aprile 2018

Il fallimento di OKC, Westbrook come Iverson e uno scambio di troppo


Tornassero indietro a OKC rifarebbero esattamente le stesse mosse che hanno caratterizzato la scorsa estate. La “trade” per Paul George e infine anche quella per Carmelo Anthony avevano un fine: restituire ai Thunder un ruolo da potenziale contendente per il titolo per poter offrire a Russell Westbrook motivi non solo economici per firmare un contratto mostruoso a lunga scadenza (35 milioni l’anno prossimo, 43.8 nel 2021/22, ultima stagione garantita e senza opzioni). E con quello convincere George a restare oltre la scadenza contrattuale del prossimo 30 giugno. Con queste due firme – una c’è già stata, dell’altra si parlerà per intere settimane – si regalerebbero altri cinque anni almeno ad alto livello anche se non necessariamente da titolo.

Sarebbe sbagliato giudicare George per quello che ha fatto in gara 6 a Salt Lake City. Tantissime superstar hanno giocato partite decisive a livelli indegni. La sua prova è stata sconcertante e ha “esposto” Russell Westbrook allo sforzo erculeo di dover vincere la partita da solo, anche ricorrendo ad armi che non sono del tutto sue, come il tiro da tre. Scottie Pippen giocò a Detroit il famoso “Migraine Game” nel 1990 ma poi vinse tre titoli di fila e fu un degno secondo violino di Michael Jordan. E solo un anno fa James Harden ebbe una terribile partita contro San Antonio che chiuse la stagione di Houston. Adesso sarà nominato MVP. Inoltre, PG ha giocato una serie per cinque partite eccellente e nelle due vittorie dei Thunder è stato decisivo, inclusa la surreale rimonta da meno 25 in gara 5. La prova di PG in gara 6 non modifica gli obiettivi estivi dei Thunder che partono dalla sua riconferma. Né terranno i Lakers o chi per loro lontani dalle sue tracce il prossimo luglio. Ma di certo avrà da riparare una fetta di reputazione. Per permettere ai Thunder di tornare a casa per gara 7, Westbrook avrebbe dovuto segnare una delle triple tentate nell’ultima sequenza, farne 49 nei tempi regolamentari, dopo i 48 di gara 5, e probabilmente metterne dentro un’altra decina nel supplementare che avrebbe potuto generare. Tanto per chiarire: stiamo parlando dell’assalto al record di 63 punti di Michael Jordan nel 1986 a Boston (infatti quella gara andò al doppio overtime).
Ora è chiaro che neanche Westbrook sarà esente da critiche: c’è sempre in lui questa furiosa determinazione a sobbarcarsi un carico di responsabilità disumano che infine finisce per tradirlo. Era così quando giocava con Kevin Durant, doveva essere così un anno fa e nelle partite decisive lo è stato ancora. Resta sempre il sospetto che dovrebbe fidarsi di più dei compagni, bravissimi (come Steven Adams) o scarsi che siano, adattarsi quando attorno a lui restano tutti fermi ad aspettare che inventi qualcosa. Westbrook è la versione moderna di Michael Jordan quando non si fidava di Scottie Pippen, di Kobe Bryant quando i Lakers cedettero O’Neal e non avevano ancora preso Pau Gasol, di Allen Iverson. Prende “solo” molti più rimbalzi, distribuisce “solo” molti più assist, ha semplicemente un serbatoio di energia e intensità agonistica che non si è mai visto prima. Jordan e in misura minore Bryant sono riusciti ad un certo punto delle loro carrierw a trovare un equilibrio tra la capacità e l’istinto dei dominatori e la valorizzazione dei compagni. Iverson non l’ha mai fatto. Westbrook ci ha provato quest’anno, a tratti, ma capita sempre il momento in cui l’istinto prevale. Infine nei playoffs prima Anthony ha abbandonato il gruppo e in gara 6 Paul George l’ha lasciato davvero solo. Ma lo stile di Westbrook è legittimo motivo di analisi.
Dopodiché a stagione finita possiamo parlare delle mosse di Sam Presti, uno dei general manager più stimati, coraggiosi e creativi della Lega. E’ possibile che abbia “out-traded” sé stesso nel tentativo di assecondare i Thunder, Westbrook e le ambizioni della franchigia?

Paul George 2017/18: 21.9 ppg, 5.7 rpg, 3.3 apg, 40.1% tiro da tre, 45.4% tiro da due, 36.6 minuti.
Victor Oladipo 2017/18: 23.1 ppg, 5.2 rp, 4.3 apg, 37.1% tiro da tre, 52.8% tiro da due, 34.0 minuti.

E’ legittimo sostenere che Victor Oladipo abbia giocato a Indiana meglio di quanto abbia fatto Paul George a OKC. Il livello espresso dai numeri è altissimo. George è considerato un difensore di elite anche se OKC ha perso 10 punti per 100 possessi quando si è infortunato Andre Roberson e PG è diventato l’asso difensivo di Billy Donovan. Quando lo scambio è stato partorito, nessuno l’ha discusso. Anzi, i Pacers sono stati pesantemente criticati. Oladipo è due anni più giovane di George e quest’anno ha guadagnato 21 milioni di dollari, più di quanto abbia preso George. Ma Oladipo è vincolato fino al 2021 e in generale si pensava che il suo contratto fosse eccessivo e troppo lungo. Ora però Sam Presti si trova in questa posizione: se George rinnovasse dovrebbe pagarlo più di quanto avrebbe pagato Oladipo ovviamente e se non restasse si troverebbe con un monte salari comunque abnorme ma una squadra che al massimo potrebbe acciuffare, trascinata da Westbrook, l’ultima poltrona per i playoffs.

Inciso: Oladipo è migliorato tantissimo. Nei playoff dell’anno passato aveva avuto 10.7 punti con il 34.4% dal campo in cinque gare contro Houston. Nella regular season aveva segnato 17.3 punti per gara, con 4.7 rimbalzi, 2.9 assist, il 36.1% da tre e il 49.1% da due. La domanda che molti sono autorizzati a fare è come l’elefante nella stanza: Oladipo è migliorato davvero, ha beneficiato dello status di numero 1 della squadra oppure giocare accanto a Westbrook è semplicemente più difficile?

Di fatto, per avere George, Presti ha sacrificato oltre a Oladipo anche Domantas Sabonis, in pratica ha sostituito due giocatori della rotazione con uno. Per completare l’operazione e prendere Carmelo Anthony da New York ha dato via anche Doug McDermott e Enes Kanter. In altre parole, anche ignorando McDermott, ha ridotto la profondità dei Thunder che già era molto, molto, relativa. Kanter è un giocatore difensivamente impresentabile, ma sarebbe stato un eccellente riserva di Adams e, con più talento offensivo attorno, il suo gioco in post basso sarebbe stato ancora più efficace. E non dimentichiamo che nel 2016 i Thunder sfiorarono l’impresa contro Golden State dopo aver strapazzato San Antonio giocando tantissimo con Adams e Kanter insieme a distruggere gli avversari a rimbalzo d’attacco. Per ovviare, Presti ha portato a casa veterani come Raymond Felton e Patrick Patterson. Quest’ultimo è stato deludente per tutto l’anno sia da ala forte che da “Stretch 5”.
Il che ci porta a dire che forse Presti ha fatto almeno uno scambio di troppo, quello per Anthony, che è iscritto al payroll dell’anno prossimo per 28 milioni. Un problema irrisolvibile perché i Thunder se riusciranno a tenere George pagheranno una tassa di lusso astronomica per di più con la necessità di analizzare l’importanza di Jerami Grant, free-agent senza restrizione e rivelazione della stagione e probabilmente in grado di rimanere solo se PG se ne andasse.
Questo genere di situazioni spinge spesso a considerare anche l’inimmaginabile ovvero la cessione di Westbrook per poter uscire da questa terra di nessuno, costosissima ma con limiti precisi. Ma Oklahoma City non è una destinazione da free-agent, non può pensare di andare al draft a ripetizione e ritrovare come è già successo Kevin Durant, Russell Westbrook (scelto al 4 dopo una stagione da 12 punti a partita a UCLA, un’evoluzione la sua stupefacente e per questo Presti è considerato un mago), James Harden (tre MVP!) e Serge Ibaka. Non può. E Westbrook è più che un uomo franchigia, è un simbolo, è il volto cui l’intera città si è aggrappata nei giorni del tradimento di Durant. E Westbrook da solo, meglio con George, garantisce rilevanza al club. I Thunder non saranno mai delle comparse finché avranno un giocatore così incredibilmente affascinante, nel bene e nel male.

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