Joe Lacob aveva
rilasciato una dichiarazione che sembrava già una minaccia. Nei minuti
successivi di gara 7 aveva detto che i Golden State Warriors sarebbero stati
estremamente aggressivi sul mercato per migliorare ulteriormente la squadra,
anche sull’onda della delusione. Quella dichiarazione d’intenti, suffragata
dalla successiva firma di Kevin Durant, è stata un segnale. I Golden State
Warriors hanno raggiunto uno status che nella loro storia non avevano mai, mai,
neppure avvicinato. Sono una franchigia modello, cui nessuno dice no a priori.
Il Mio Basket
Opinioni, analisi e i miei libri: il mondo del basket americano visto da me di Claudio Limardi
sabato 9 giugno 2018
martedì 5 giugno 2018
NBA Finals 1990-1999: quando Steve Kerr diventò l'eroe dell'ultimo tiro
Nella NBA era sempre
stato considerato una mezza figura. Phoenix lo scelse perché era un idolo
locale; a Cleveland ebbe poco spazio e quando fu ceduto a Orlando gli dissero
che in Florida avrebbe finalmente potuto ampliare il proprio gioco. Provvisto
di grande “sense of humor”, intelligente, umile, modesto, commentò che non
aveva capito si riferissero al golf, piuttosto che al basket. Ma nel triangolo
dei Bulls, Steve Kerr aveva trovato lo scenario giusto per emergere. Nella Finale del
1996 era stato dignitoso, in quella del 1997 era rimasto al di sotto del suo
standard. In gara 4 aveva sbagliato il tiro più importante, uno di quelli che
avevano permesso a Stockton di scatenarsi. Dopo quell’errore era entrato in una
fase di totale sconforto che aveva preoccupato la moglie Margot al punto da
spingerla a far visita a Michael Jordan prima del rientro a Chicago per
chiedergli di aiutare il marito se se ne fosse presentata l’occasione.
venerdì 1 giugno 2018
La chiamata Durant/LeBron invertita con la scusa dell'instant-replay
La chiamata invertita, prima sfondamento di Kevin Durant poi fallo di LeBron James, non ha vinto la partita per i Golden State Warriors ma di sicuro ha impedito che la perdessero. La chiave è in una regola poco nota istituita nel 2012/13: consente agli arbitri, una volta optato per l'uso del replay, al fine di valutare la posizione del difensore (dentro o fuori il semicerchio?), di verificare successivamente se la chiamata fosse o meno corretta. Nei fatti si tratta di usare la tecnologia per correggere un ipotetico errore tecnico. Più che instant-replay può chiamarsi arbitraggio elettronico.
mercoledì 30 maggio 2018
Come può Houston tenere Paul, Capela e migliorare lo stesso?
Più che disquisire sui tanti, troppi, tiri da tre che
Houston ha preso e sbagliato in gara 7, bisognerebbe capire quanto i Rockets abbiano
pagato le ridotte dimensioni della loro rotazione e coinvolgere la cronica
tendenza di Mike D’Antoni di utilizzare pochi giocatori spremendo i migliori o
i più fidati. Nelle partite importanti, D’Antoni ha usato una rotazione di
sette giocatori. Se questo abbia causato il calo vistoso della squadra nel
secondo tempo di gara 6 e 7, se questo sia uno dei motivi dell’infortunio di
Chris Paul – che di infortuni al momento sbagliato purtroppo ne ha avuto tanti
in carriera – non è dimostrabile né in un senso né in un altro. Ma di sicuro
questa stagione ha rinforzato alcuni concetti, tipo la necessità di proteggere
Paul durante la regular season (fatto già quest’anno ma forse bisognerà farlo
ancora di più) e trovare il sistema di aumentare il numero di giocatori fidati
su un mercato che per i Rockets comincia in salita.
A proposito di Houston e D'Antoni: la verità sul massiccio ricorso al tiro da tre
Nella gara più importante della sua vita di allenatore, ad
una vittoria dalla finale NBA, Mike D’Antoni è stato tradito macabramente
dall’arma attorno alla quale ha costruito la sua filosofia di gioco, ovvero il
tiro da tre. Houston in realtà era molto diversa dai Suns dei “Sette secondi o
meno”. Non erano una squadra ad altissimo numero di possessi e il tiro da tre
non nasceva dalla circolazione della palla ispirata da Steve Nash ma da uno
spinto utilizzo dell’uno contro uno che poi generava canestri al ferro (James
Harden), tiri liberi o tiri dalla media che non sarebbero previsti dal sistema
ma per Chris Paul sono equivalenti ad un lay-up. Ma nella gara più importante
della stagione, Houston ha sbagliato 27 tiri da tre consecutivi e perso contro
Golden State. Che in una serata orribile al tiro abbia perso di nove è solo un
altro aspetto della beffa.
lunedì 28 maggio 2018
Il superotto di LeBron James
La nona finale della carriera di LeBron James (eguagliato
Magic Johnson che ne vinse cinque) è anche l’ottava consecutiva. Ma mai era
arrivata partendo dal numero 4 del tabellone e con una squadra oggettivamente
così debole, dopo una stagione che ne ha racchiuse almeno tre in pochi mesi.
Solo nel 2007 quando non aveva ancora 23 anni l’approdo in finale poteva essere
considerato stupefacente come lo è adesso. I Cavaliers hanno cominciato questa
stagione perdendo Kyrie Irving, la seconda star della squadra, legittimamente
uno dei primi 10-12 giocatori di questa Lega; l’esperimento Isaiah Thomas è fallito;
affiancare a LeBron, in una specie di operazione nostalgia+amicizia, Dwyane
Wade è stato un altro fallimento. La rivoluzione di febbraio ha fatto
precipitare la squadra in classifica, afflitta da una difesa terribile e un’attitudine
spesso peggiore. La perla della rivoluzione, Rodney Hood, è fuori dalla
rotazione. Per arrivare in finale, Cleveland ha dovuto vincere due volte una
gara 7. Probabilmente Indiana meritava di avanzare più dei Cavaliers nel primo
turno; l’ostacolo più arduo, Toronto, si è rivelato un clamoroso bluff; Boston
ha avuto una stagione stupefacente ma l’accesso dei Celtics in finale era il
solo evento che avrebbe avuto addirittura meno senso, date le circostanze.
Boston, se avesse vinto gara 7, sarebbe entrata in finale con un record di 1-7
in trasferta nei playoff, due vittorie in gara 7 come Cleveland ma tutte e due
ottenute proteggendo il fattore campo. I Celtics meritavano la finale, per come
e dove sono arrivati senza i loro due migliori giocatori (e Dan Theis), ma
appunto avrebbe avuto meno senso di vedere qui LeBron, a tratti da solo.
NBA Finals 1990-1999: l'arrivo a Chicago di Dennis Rodman
Aveva solo tre anni,
Rodman, quando il padre Philander scappò di casa. Anni dopo si rifece vivo
informandolo che viveva nelle Filippine, faceva il manager di un ristorante, si
era risposato e aveva qualcosa come ventinove figli, o giù di lì. Un giorno
arrivò a Chicago e una radio privata cercò di favorire l’incrocio tra Dennis e
Philander ma senza successo. Rodman è cresciuto nei ghetti di Dallas in una
famiglia divenuta… femminile con le due sorelle maggiori, Kim e Debra, e la
madre Shirley, che per mantenere i figli svolgeva due lavori e trascorreva il
tempo libero (ammesso che ne avesse) suonando il piano in chiesa. Kim e Debra
diventarono due splendide giocatrici, quest’ultima vinse il titolo NCAA con
Louisiana Tech, la prima diventò All-America alla Stephen F.Austin University.
Quanto a Dennis, lo sport gli piaceva ma quando cercò di conquistare un posto
nella squadra di football della South Oak Cliff High School venne tagliato
perché di corporatura troppo esile. A basket veniva regolarmente sbeffeggiato
dalle sorelle, più alte, grosse e dotate di lui.
lunedì 21 maggio 2018
NBA Finals 1990-1999: il sogno di Clyde Drexler
Clyde Drexler non era più
felice di stare a Portland. Era stato quasi ceduto a Miami ma la prospettiva di
dover sottoporre la famiglia ad un lungo trasferimento per giocare in una
squadra mediocre non lo attraeva. Così decise di venire allo scoperto e
chiedere di essere scambiato ma solo ad una squadra di vertice, di suo
gradimento. In fondo, i Trail Blazers glielo dovevano.
venerdì 18 maggio 2018
NBA Finals 1990-1999: la leggenda di John Starks
John Starks veniva dall’Oklahoma,
cambiò quattro college, fece il magazziniere in un supermercato finché non si
convinse che aveva talento e non doveva sprecarlo tra scatoloni, scaffali e
lattine. Riuscì ad andare a Oklahoma State, vi giocò l’ultimo anno di college,
poi ebbe una chance NBA a Golden State ma lo tagliarono. Si rifugiò nella CBA e
infine arrivò la chiamata di New York, l’1 ottobre 1990. Il giorno in cui il
roster doveva essere ridotto a 12 uomini, capì che il suo destino era segnato.
Così decise di andar fuori ma a modo suo. Combattendo. In un’entrata trovò il
corpaccione di Ewing a sbarrargli la strada. Pensò di schiacciargli in testa.
In realtà cadde rovinosamente, si infortunò e i Knicks non poterono tagliarlo
per regolamento. Lo ricollocarono in lista infortunati. Guadagnò tempo.
mercoledì 16 maggio 2018
Philadelphia, da Simmons ad Embiid ai tiratori ora serve il passo più difficile
I playoffs smascherano fino alle estreme conseguenze la
reale consistenza di una squadra. Ora è probabile che sottoposti alla cura
tattica di Brad Stevens e dei Boston Celtics, i Sixers abbiano denunciato
limiti più evidenti di quelli reali. Ma è vero che contro una squadra priva di
due starter e un solido cambio come Dan Theis, priva in gara 1 di Jaylen Brown,
Philadelphia avrebbe potuto fare decisamente meglio di una onorevole ma inequivocabile
resa in cinque gare. Soprattutto pensando ai Sixers come alla prima alternativa
a est dei Celtics del prossimo quinquennio. Il che è già ovviamente un
clamoroso successo pensando alle premesse e al recente passato.
venerdì 11 maggio 2018
Brad Stevens: quando la nuova star dei playoffs è un allenatore
Non si era mai vista nella NBA un'edizione dei playoffs in cui la stella emergente non è stato un giocatore con buona pace di Donovan Mitchell, Jayson Tatum, Scary Terry Rozier, Embiid and Simmons, Oladipo, Clint Capela, ma un allenatore. Nemmeno gli eroismi di LeBron hanno cancellato l'odierna fissa mondiale per il coach dei Boston Celtics.
mercoledì 9 maggio 2018
New York ha fatto bene a prendere David Fizdale?
Sul mercato allenatori nella NBA sta accadendo qualcosa di interessante.
È scomparsa la figura dell'allenatore-star, affermato, quello che può
scegliere quale squadra allenare. Chi lo ha o pensa di averlo lo tiene
per molti anni come Gregg Popovich o Rick Carlisle. Chi l'ha trovato lo
blinda come Golden State con Steve Kerr o Boston con Brad Stevens (ma
l'elenco potrebbe allungarsi con Quin Snyder a Utah, Brett Brown a
Philadelphia). Le squadre che cambiano coach sono per lo più quelle di
bassa classifica e la nuova tendenza è quella di svolgere colloqui con
10-12 allenatori diversi, il classico casting che non significa non
avere idee chiare ma svolgere con grande attenzione la propria ricerca.
Persino Houston, che due anni fa ha scelto un coach affermato ed esperto
come Mike D'Antoni, ha prima "intervistato" una decina di altri
allenatori. Ma oggi normalmente sembra più facile avere una chance per
un assistente che per un ex capo.
lunedì 30 aprile 2018
Antetokounmpo: il dubbio è che non sia una prima punta
Giannis Antetokounmpo andrà a scadenza di contratto nel
2021. Significa che fortunatamente i Milwaukee Bucks hanno ancora tre anni per
convincerlo a spendere la parte più importante della sua carriera nel
Wisconsin. Kareem Abdul-Jabbar un giorno disse che lo stile di vita di
Milwaukee – Harley-Davidson a parte – non si adattava al suo. Abdul-Jabbar è
stato il più grande giocatore nella storia della franchigia e il motivo dell’unico
titolo che abbiano mai vinto. Ceduto lui ai Lakers, non sono più tornati in
finale anche se hanno avuto buoni momenti e grandi giocatori. Marques Johnson e
Sidney Moncrief erano le stelle negli anni ’80 quando i Bucks erano la terza
forza all’est dopo Boston e Philadelphia; poi c’è stata la squadra di Ray Allen
e Glenn Robinson che arrivò ad una partita dalla fine del 2001. Ma
individualmente Giannis è il più grande giocatore che abbia mai giocato nei
Bucks dopo Abdul-Jabbar e ricordando che Oscar Robertson trascorse a Milwaukee
la parte terminale della propria carriera. Ma Antetokounmpo – uomo franchigia –
rischia di diventare per i Bucks quello che Anthony Davis è per i Pelicans. Una
star troppo grande per tenerla confinata in eterno in un mercato così piccolo
se il cast di supporto, come lo chiamava Michael Jordan, non sarà da titolo.
sabato 28 aprile 2018
Ma questo di Rudy Gobert non era un fallo sul tiro da tre?
E’ molto italiano parlare del “non fallo” di Rudy Gobert su
Paul George. Se anche fosse stato chiamato un imbarazzante George avrebbe
dovuto andare sulla linea e fare 3/3 per portare la sfida al supplementare (in
realtà Utah avrebbe avuto un’altra opportunità). In queste ultime gare di
playoffs ci sono state tantissime chiamate controverse, il goal-tending di
LeBron James su Victor Oladipo, i 24 secondi non chiamati ad Al Horford che
hanno aiutato i Celtics a vincere gara 5 su Milwaukee ad esempio. La NBA spiega
tutto e ha spiegato anche la non chiamata di Ron Garretson, arbitro
espertissimo e figlio di Darrell Garretson, forse il più grande arbitro di
tutti i tempi, ma il problema resta e forse potrebbe generare altre riflessioni
sulla natura stessa del basket.
Il fallimento di OKC, Westbrook come Iverson e uno scambio di troppo
Tornassero indietro a OKC rifarebbero esattamente le stesse
mosse che hanno caratterizzato la scorsa estate. La “trade” per Paul George e
infine anche quella per Carmelo Anthony avevano un fine: restituire ai Thunder
un ruolo da potenziale contendente per il titolo per poter offrire a Russell
Westbrook motivi non solo economici per firmare un contratto mostruoso a lunga
scadenza (35 milioni l’anno prossimo, 43.8 nel 2021/22, ultima stagione
garantita e senza opzioni). E con quello convincere George a restare oltre la
scadenza contrattuale del prossimo 30 giugno. Con queste due firme – una c’è
già stata, dell’altra si parlerà per intere settimane – si regalerebbero altri
cinque anni almeno ad alto livello anche se non necessariamente da titolo.
Superbasket, Michael Jordan, Planinic e altro: l'intervista di Giancarlo Migliola
sabato 21 aprile 2018
New York Basketball Stories 2.0: le origini di Kyrie
Drederick Irving un giorno disse ai due figli, Asia e Kyrie, che avrebbero
dovuto ricevere dalla vita più di quanto aveva avuto lui. Non era una grande
dichiarazione. Drederick Irving veniva da un ghetto del Bronx, viveva nei Mitchel
Projects, la madre gestiva due lavori per mantenere da sola sei figli perché il
padre se ne andò senza avvertire nessuno quando Drederick aveva sei anni.
Peggio di così, sarebbe stato difficile. Drederick e i suoi vivevano con il
welfare, non avevano nulla. Tranne il basket.
mercoledì 18 aprile 2018
A proposito del nuovo allenatore dei Knicks
Durante la stagione 1994/95, la sua quarta a New York, Pat
Riley chiese alla proprietà potere esecutivo su tutta la parte cestistica
dell’organizzazione. Ma i Knicks erano nel mezzo di un cambio di proprietà e
sono sempre stati una questione di equilibrismi, politica, potere. Riley non
ebbe risposta e cominciò segretamente a trattare con Miami. A fine stagione, si
dimise con un anno di contratto restante e si trasferì a South Beach. Gli Heat
dovettero ricompensare New York per schivare sanzioni. Riley ebbe da Micky
Arison quello che voleva. Sarebbero seguiti oltre 20 anni di gestione che hanno
prodotto tra le altre cose: tre titoli NBA, cinque finali, una galleria di
fenomeni che comprende LeBron James, Dwyane Wade, Alonzo Mourning, Chris Bosh,
Tim Hardaway e Shaquille O’Neal. Questi quasi 25 anni – ovviamente sarebbero cambiate molte
dinamiche – avrebbero potuto essere i 25 anni dei Knicks che tra l’altro nel
1995 erano molto più avanti di quanto lo fosse Miami nello sviluppo della
squadra. Anzi erano competitivi per vincere subito e infatti lo sarebbero stati
– senza Pat Riley – per altri cinque o sei anni (giocarono la Finale nel 1999,
persero la finale di conference nel 2000).
lunedì 16 aprile 2018
NBA Finals 1990-1999: la battaglia dei tre overtime a Chicago
Lo Chicago Stadium aveva
quasi 70 anni quando ospitò la terza Finale NBA della sua gloriosa storia.
Nacque come arena dedicata all’hockey su ghiaccio e mostrava, nel 1993, tutti
gli anni che aveva. Al di là della strada, era già in piedi il cantiere per la
costruzione dello United Center che avrebbe debuttato nella stagione 1994/95.
Lo Stadium non aveva le suite, gli spogliatoi somigliavano a scantinati, la
stampa prima della partita cenava in un luogo tetro. Poi i tavoli venivano
rimossi, sostituiti da una lunga fila di sedie asportabili e la stanza si
trasformava nel luogo deputato alle interviste post partita. Per accedere al
campo di gioco bisognava attraversare un tunnel strettissimo, salire lungo
scale pericolanti e infine accedere al tempio. Lo Stadium era decadente. Quindi
era bellissimo.
venerdì 13 aprile 2018
Allenatore dell'anno: otto candidati e un solo Brad Stevens
Non c’è mai stata probabilmente nella storia della NBA una
stagione con tanti allenatori meritevoli del trofeo di Coach dell’anno. E’
legittimo considerare candidati in nessun particolare ordine: Brad Stevens
(Boston), Dwane Casey (Toronto), Brett Brown (Philadelphia), Nate McMillan
(Indiana), Mike D’Antoni (Houston), Gregg Popovich (San Antonio), Terry Stotts
(Portland) e Quin Snyder (Utah). C’è un modo interessante, nell’era dei dati
analitici ormai di uso comune in America, per decifrare il rendimento di una
squadra: paragonare il numero di vittorie effettivo al numero di vittorie
preventivate a inizio stagione dai siti specializzati. Ad esempio di questi
otto allenatori, solo Popovich ha vinto meno partite (47 contro 53) del
preventivato; Stevens a Boston è andato pari. Gli altri ne hanno vinte in media
una decina in più.
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