Durante la stagione 1994/95, la sua quarta a New York, Pat
Riley chiese alla proprietà potere esecutivo su tutta la parte cestistica
dell’organizzazione. Ma i Knicks erano nel mezzo di un cambio di proprietà e
sono sempre stati una questione di equilibrismi, politica, potere. Riley non
ebbe risposta e cominciò segretamente a trattare con Miami. A fine stagione, si
dimise con un anno di contratto restante e si trasferì a South Beach. Gli Heat
dovettero ricompensare New York per schivare sanzioni. Riley ebbe da Micky
Arison quello che voleva. Sarebbero seguiti oltre 20 anni di gestione che hanno
prodotto tra le altre cose: tre titoli NBA, cinque finali, una galleria di
fenomeni che comprende LeBron James, Dwyane Wade, Alonzo Mourning, Chris Bosh,
Tim Hardaway e Shaquille O’Neal. Questi quasi 25 anni – ovviamente sarebbero cambiate molte
dinamiche – avrebbero potuto essere i 25 anni dei Knicks che tra l’altro nel
1995 erano molto più avanti di quanto lo fosse Miami nello sviluppo della
squadra. Anzi erano competitivi per vincere subito e infatti lo sarebbero stati
– senza Pat Riley – per altri cinque o sei anni (giocarono la Finale nel 1999,
persero la finale di conference nel 2000).
Opinioni, analisi e i miei libri: il mondo del basket americano visto da me di Claudio Limardi
mercoledì 18 aprile 2018
lunedì 16 aprile 2018
NBA Finals 1990-1999: la battaglia dei tre overtime a Chicago
Lo Chicago Stadium aveva
quasi 70 anni quando ospitò la terza Finale NBA della sua gloriosa storia.
Nacque come arena dedicata all’hockey su ghiaccio e mostrava, nel 1993, tutti
gli anni che aveva. Al di là della strada, era già in piedi il cantiere per la
costruzione dello United Center che avrebbe debuttato nella stagione 1994/95.
Lo Stadium non aveva le suite, gli spogliatoi somigliavano a scantinati, la
stampa prima della partita cenava in un luogo tetro. Poi i tavoli venivano
rimossi, sostituiti da una lunga fila di sedie asportabili e la stanza si
trasformava nel luogo deputato alle interviste post partita. Per accedere al
campo di gioco bisognava attraversare un tunnel strettissimo, salire lungo
scale pericolanti e infine accedere al tempio. Lo Stadium era decadente. Quindi
era bellissimo.
venerdì 13 aprile 2018
Allenatore dell'anno: otto candidati e un solo Brad Stevens
Non c’è mai stata probabilmente nella storia della NBA una
stagione con tanti allenatori meritevoli del trofeo di Coach dell’anno. E’
legittimo considerare candidati in nessun particolare ordine: Brad Stevens
(Boston), Dwane Casey (Toronto), Brett Brown (Philadelphia), Nate McMillan
(Indiana), Mike D’Antoni (Houston), Gregg Popovich (San Antonio), Terry Stotts
(Portland) e Quin Snyder (Utah). C’è un modo interessante, nell’era dei dati
analitici ormai di uso comune in America, per decifrare il rendimento di una
squadra: paragonare il numero di vittorie effettivo al numero di vittorie
preventivate a inizio stagione dai siti specializzati. Ad esempio di questi
otto allenatori, solo Popovich ha vinto meno partite (47 contro 53) del
preventivato; Stevens a Boston è andato pari. Gli altri ne hanno vinte in media
una decina in più.
martedì 10 aprile 2018
MVP Review: la vittoria di Harden e il check-up di tutte le candidature (All in One)
La corsa al titolo di MVP non è stata appassionante come un
anno fa quando il mondo si era diviso tra Russell Westbrook, James Harden e nel
finale prese quota la candidatura di Kawhi Leonard. Quest’anno Harden vincerà
con largo margine sul secondo classificato ed esiste una piccola possibilità
che come Steph Curry due anni fa vinca il titolo all’unanimità. Può starci:
Harden è il miglior giocatore della miglior squadra della stagione, quella che
ha stabilito il nuovo record franchigia di vittorie, ed è il miglior
realizzatore della Lega, oltre i 30 di media. Quest’anno Harden figurerà per il
quarto anno consecutivo nel primo quintetto All-NBA e in passato è arrivato due
volte secondo nella corsa all’MVP.
lunedì 9 aprile 2018
MVP Review: l'interminabile LeBron e i quintetti All-NBA
LeBron James aveva cominciato questa stagione con l'atteggiamento di un uomo in missione. Sembrava volesse appropriarsi per acclamazione del titolo di MVP, un modo inequivocabile per mettere a tacere ogni argomento di discussione su chi sia il miglior giocatore del mondo o su un suo presunto declino. Le difficoltà di Cleveland, con la conseguente rivoluzione del roster, hanno determinato una sorta di passaggio a vuoto, anche mentale, attorno a metà stagione in cui James Harden nella percezione pubblica ha allungato decisamente, lasciandoselo alle spalle. Così probabilmente LeBron non sarà l'MVP della stagione. Non si aggiudica il trofeo dal 2014. Guardando all'età verrebbe da dire che è normale: superati i 33 anni, sarebbe legittimo si risparmiasse durante la regular season per dare il meglio nei playoffs. Non dimentichiamo che LeBron gioca la Finale ininterrottamente dal 2011 (sono sette di fila praticamente due anni di carriera supplementari).
mercoledì 4 aprile 2018
MVP Review: Anthony Davis è il prototipo del centro moderno
Considerato che i New Orleans Pelicans avrebbero dovuto
sparire dalla corsa ai playoffs nel momento stesso in cui hanno perso per
infortunio DeMarcus Cousins – i cui numeri restano sensazionali -, la stagione
di Anthony Davis – The Brow – è stata naturalmente stupefacente. Non è una
sorpresa: Davis è il capostipite della generazione dei centri che possono
difendere sul perimetro oltre che al ferro, attaccare dal palleggio oltre che
dentro l’area ed essere decentemente pericolosi da fuori. Vengono in mente Karl-Anthony
Towns e Joel Embiid. Tutti questi giocatori sono sempre considerati ibridi nel
senso che la tendenza è quella di accoppiarli a centri veri, teoricamente
deputati a svolgere un po’ di lavoro sporco e fisico, ma il rendimento
generalmente è migliore quando possono fare a meno di tale compagnia.
martedì 3 aprile 2018
MVP Review: Westbrook resta superbo ma OKC ha vinto troppo poco
Da un punto di vista strettamente individuale, nonostante i
ben noti difetti (tiro da tre sotto il 30 %, qualche volta resiste alla
tentazione di usarlo, spesso no, specie nei finali di gara, ma lui è così,
agonista anche nello sfidare i propri limiti) o la tendenza a esagerare, Russell
Westbrook potrebbe essere confermato MVP della stagione. Perché no? Chiuderà
molto vicino alla seconda tripla doppia media in carriera. Qualche rimbalzo qua
e qualche rimbalzo là e ce l’avrebbe fatta ancora. Ha vinto la classifica degli
assist così autorizzandosi a cedere a James Harden lo scettro di miglior
realizzatore della Lega. I Thunder accanto a lui sono cambiati tanto e hanno
inciso anche sulla sua stagione: ha tirato meno (soprattutto da tre), ha tirato
meglio (45 %), ha segnato meno perché è andato meno in lunetta, ha “usato” il
34.3% dei possessi di Oklahoma City contro il 41.7% di un anno fa, cifra
record. Ha assistito quasi il 50 % dei canestri segnati dai compagni con lui in
campo. Perché quindi Westbrook non dovrebbe essere l’MVP?
venerdì 30 marzo 2018
MVP Review: perchè Durant e Steph si ostacolano
Nel momento stesso in cui due estati fa Kevin Durant scelse
di portare il suo talento sulla Baia, istantaneamente le sue possibilità di
vincere un secondo MVP dopo quello conquistato con Oklahoma City nel 2014 si
sono ridotte. E per osmosi si sono ridotte anche quelle di Stephen Curry.
Succede sempre quando un superteam non ha un chiaro leader. A Miami era LeBron
James pur arrivando lui, da esterno, nella squadra di Dwyane Wade; ai Lakers di
inizio secolo il leader era Shaquille O’Neal e Kobe Bryant è diventato un
candidato MVP solo quando Shaq è stato ceduto a Miami; a Houston, Chris Paul è
andato a fortificare i Rockets che restano la squadra di James Harden. Durant
era il numero 1 a OKC. Probabilmente, Russell Westbrook non sarebbe mai stato
l’MVP della Lega se KD non fosse andato mai andato via. Forse.
mercoledì 28 marzo 2018
MVP Review: il nuovo status di DeMar DeRozan
Può sembrare un’esagerazione includere DeMar DeRozan in una
qualsiasi conversazione sull’MVP di questa stagione soprattutto considerando le
cifre nude e crude. DeRozan, che è una guardia di alto livello da almeno cinque
anni, sta segnando circa quattro punti a partita in meno dei 27.3 di una
stagione addietro (record carriera) ed è passato da 5.2 a 3.9 rimbalzi per
gara. Va anche meno spesso in lunetta (da 8.7 viaggi a 7.2) e sarebbe
limitativo attribuire questa minor produttività al minutaggio. Dwane Casey lo
impiega 34 minuti di media, contro gli oltre 35 di un anno fa, un decremento
nel complesso trascurabile.
lunedì 26 marzo 2018
MVP Review: giocare a Portland penalizza Damian Lillard?
Damian Lillard ha 27 anni e per la quinta stagione
consecutiva sarà oltre i 20 punti di media oppure oltre i 25 per la terza. Eppure
resta un giocatore difficile da interpretare. In parte è una questione
logistica: Lillard ha giocato a Weber State dove l’esposizione è limitata, poi
è stato scelto nella seconda parte del primo giro del draft quindi con modeste
aspettative e infine è finito a Portland. Non è un mistero che giocare a tre
ore di fuso orario dalla costa est è penalizzante, soprattutto se non lo fai a
Los Angeles ma in un mercato limitato come quello di Portland. Avesse giocato a
New York è probabile – sicuro? – che la popolarità di Lillard sarebbe stata
diversa.
MVP Review: la candidatura tramontata di Giannis Antetokounmpo
Giannis Antetokounmpo per una porzione di stagione era stato
considerato un legittimo candidato MVP poi sono successe tante cose, ma soprattutto i Milwaukee Bucks sono scivolati
indietro nella classifica della Eastern Conference esattamente nella stagione
in cui, date le circostanze, avrebbero almeno potuto prendersi il vantaggio del
campo nel primo turno.
domenica 25 marzo 2018
MVP Review: nessuno può battere James Harden quest'anno
La corsa al titolo di MVP non è stata appassionante come un
anno fa quando il mondo si era diviso tra Russell Westbrook, James Harden e nel
finale prese quota la candidatura di Kawhi Leonard. Quest’anno Harden vincerà
con largo margine sul secondo classificato ed esiste una piccola possibilità
che come Steph Curry due anni fa vinca il titolo all’unanimità. Può starci:
Harden è il miglior giocatore della miglior squadra della stagione, quella che
ha stabilito il nuovo record franchigia di vittorie, ed è il miglior
realizzatore della Lega, oltre i 30 di media. Quest’anno Harden figurerà per il
quarto anno consecutivo nel primo quintetto All-NBA e in passato è arrivato due
volte secondo nella corsa all’MVP.
giovedì 22 marzo 2018
New York Basketball Stories 2.0: l'acquisto del nemico Monroe
Il 10 novembre 1971 invece i Knicks decisero di
eseguire un triplo salto mortale ed effettuare uno degli scambi più rumorosi
nella storia della NBA. Girarono Mike Riordan e Dave Stallworth a Baltimore per
ottenere niente di meno che Earl Monroe, il loro giustiziere dell’anno prima,
il grande avversario per anni, soprattutto di Walt Frazier.
NBA Finals Story 1990-1999: The Shrug
In gara 1 tutto quel che
fece Michael Jordan fu sparare, senza errori, dentro il canestro di Portland,
sei fucilate da tre punti. I Blazers lo invitarono al tiro. Come molti fecero
in quelle stagioni, anche a Portland pensarono che concedergli il tiro da fuori
fosse il minore dei mali. Almeno avrebbe evitato di caricare di falli gli
avversari attaccando l’area.
martedì 20 marzo 2018
Toronto Raptors: da Bosh e Bargnani a DeRozan, l'evoluzione
Negli ultimi due anni i migliori tre giocatori dei Toronto
Raptors sono andati a scadenza di contratto. Ogni singolo contratto in scadenza
ha dato la possibilità al general manager Masai Ujiri – una storia incredibile
la sua, ragazzo nigeriano emigrato negli Stati Uniti per il college e diventato
un top manager nella NBA – di implodere la propria creatura e ripartire da zero
prendendo atto che la squadra non era abbastanza forte da superare LeBron James
o difendersi dall’ascesa di Boston, per cominciare (ma anche Philadelphia e forse
Milwaukee), ma comunque troppo costosa per attrarre free-agent altrui e troppo
buona per scegliere in alto nel draft. E invece Ujiri ha confermato le sue
star, eseguito un capolavoro nel circondarli di giocatori giovani, a basso
costo e futuribili, e ha in mano adesso una squadra che entrerà nei playoff come
prima di conference e con la concreta possibilità di approdare per la prima
volta nella sua storia in finale.
domenica 18 marzo 2018
L'evoluzione del gioco dei Raptors
Nurse è uno degli assistenti di Dwane Casey, uno dei
sopravvissuti dei Raptors. Casey era un giovane assistente di Kentucky quando
una busta spedita da lui alla recluta Chris Mills (futuro discreto giocatore
NBA) contenente denaro saltò fuori in modo rocambolesco creando uno scandalo
che avrebbe dovuto spazzarlo via. Casey ripartì dal Giappone, era un reietto.
In seguito è riemerso prima da assistente (a Seattle ha fatto la finale del
1996, a Dallas ha vinto il titolo del 2011) e poi capo a Minnesota e infine
Toronto.
sabato 17 marzo 2018
La storia dell'ascesa dei Raptors
Nel 2009/10 i Toronto Raptors vinsero 40 partite e non si
qualificarono per i playoff. Bosh in quel momento vantava due apparizioni in
post-season e due eliminazioni al primo turno. Non c’era modo che quei Raptors
potessero diventare una squadra da titolo. E Bosh era la “spalla” più ricercata
della NBA nella stagione clamorosa di “The Decision”. Chris si accodò a Dwyane
Wade e LeBron James trasferendosi a Miami. I Raptors rimasero senza la loro
star e costretti a ricostruire. Tuttavia Colangelo aveva già gettato basi
importanti: nel 2009 aveva scelto DeMar DeRozan che nel primo anno senza Bosh
ebbe 17.2 punti per gara a 21 anni di età. Nei draft successivi alla fuga di
Bosh scelse Jonas Valanciunas e Terrence Ross. Nell’estate del 2012 acquistò da
Houston anche Kyle Lowry. Quando nel 2013 venne sostituito da Ujiri lasciò al
suo successore i tre quinti dello starting five di adesso inclusi i due
All-Star, più Ross che poi Ujiri avrebbe utilizzato per prendere Ibaka da
Orlando. Per quanto i Sixers di oggi siano considerati il frutto del lavoro di Sam
Hinkie e delle sue drastiche idee (Trust The Process) più che di Colangelo
(teoria rafforzata dal disastroso – al momento - scambio Fultz-Tatum con
Boston); al tempo stesso nei Raptors di oggi c’è molto di Colangelo. Ujiri ha
ricevuto una grande eredità e l’ha valorizzata bene.
venerdì 16 marzo 2018
Ecco come Toronto è diventata la miglior squadra dell'Est
Negli ultimi due anni i migliori tre giocatori dei Toronto Raptors sono andati a scadenza di contratto. Ogni singolo contratto in scadenza ha dato la possibilità al general manager Masai Ujiri – una storia incredibile la sua, ragazzo nigeriano emigrato negli Stati Uniti per il college e diventato un top manager nella NBA – di implodere la propria creatura e ripartire da zero prendendo atto che la squadra non era abbastanza forte da superare LeBron James o difendersi dall’ascesa di Boston, per cominciare (ma anche Philadelphia e forse Milwaukee), ma comunque troppo costosa per attrarre free-agent altrui e troppo buona per scegliere in alto nel draft. E invece Ujiri ha confermato le sue star, eseguito un capolavoro nel circondarli di giocatori giovani, a basso costo e futuribili, e ha in mano adesso una squadra che entrerà nei playoff come prima di conference e con la concreta possibilità di approdare per la prima volta nella sua storia in finale.
giovedì 15 marzo 2018
La perdita del Re Saltatore di Charlotte, Henry Hi-Fly Williams
Questa è davvero dura da assorbire perché Henry Williams
aveva solo 47 anni, perché tutti noi siamo stati testimoni della sua intera
carriera professionistica, pensando che nella NBA erano stati pazzi a non
accettarne i limiti di taglia fisica per prendere tutto quello che sapeva fare
con il suo tiro mancino, l’esplosività, la straordinaria velocità di piedi. Ricordo la
prima volta che lo vidi fuori dal campo. C’era un ristorate vicino al palasport
di Verona. Non ricordo quale partita fosse. Lui entrò, vestito bene, elegante,
e dai tavoli spontaneamente si alzò un applauso che lo mise in imbarazzo. Fece
un piccolo inchino, alzò il braccio. Era contento e a disagio al tempo stesso.
L’ultima volta fu in America: aveva smesso di giocare presto dopo gli anni di
Verona, Treviso, Roma e Napoli. Lavorava come commentatore televisivo per
Charlotte. In fondo era anche quello un modo per raggiungere la NBA. Parlava
ancora in modo accettabile l’italiano. Da tempo era un pastore battista – la
religione sempre al primo posto della sua vita – ma faceva tante cose, aveva
sostenuto altre attività imprenditoriali, anche con la moglie. Fare l’analista
televisivo gli permetteva di rimanere a contatto con il basket in un posto in
cui aveva giocato solo a livello universitario ma dov’era una leggenda. Era
allegro, felice, una persona di successo, in pace con sé stesso e con la vita.
Era prima del 2009 quando gli dissero che i suoi reni non funzionavano più e
non sapevano spiegarsi perché. Da quel momento otto ore al giorno di dialisi:
comprò la macchina per evitare di dover andare in ospedale tutti i giorni e
poterla usare a casa. E provava a vivere come se fosse ancora Hi-Fly Williams,
il più grande realizzatore nella storia di North Carolina-Charlotte. Predicava
tutte le settimane ai fedeli, non aveva perso fede, fiducia, entusiasmo. La
vita l’aveva colpito duramente ma non l’aveva spento. Almeno fino a ieri.
mercoledì 14 marzo 2018
New York Basketball Stories 2.0: Frazier l'uomo che veniva dalla povertà
Frazier era il più anziano di nove figli di una
famiglia poverissima di Atlanta in Georgia in un’epoca in cui per gli
afroamericani il sud del paese non era proprio il luogo più piacevole in cui
vivere. Giocava alla Howard High School e diventò una stella, il miglior
giocatore della Georgia ma con pochissima visibilità perché confinato nelle
competizioni per soli ragazzi di colore nelle palestre ghettizzate di scuole
nere. Non venne neanche considerato dai college della zona, tipo Georgia Tech,
che anni dopo avrebbe attinto ripetutamente dalle strade di New York (Kenny
Anderson, Stephon Marbury), o Georgia.
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